Cosa significa davvero essere ‘fuori’? Esiste un luogo dove l’essere umano può sentirsi completamente libero? A partire da domande tanto intime quanto politiche, Mario Martone costruisce con “Fuori” un film stratificato, potente, forse uno dei suoi più ispirati. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2025, è un’opera che non si accontenta di raccontare la figura di Goliarda Sapienza – scrittrice irregolare, disillusa e lucida – ma si interroga sul senso stesso dell’identità, della marginalità, della resistenza attraverso la sensibilità febbrile di chi ha fatto della scrittura un atto esistenziale prima ancora che letterario.

Nel film, Valeria Golino presta corpo e voce a una Goliarda stanca, segnata, ma ancora radicalmente viva. La ritroviamo nell’estate del 1980, appena uscita dal carcere di Rebibbia, dove ha scontato una pena per il furto di alcuni gioielli. Goliarda è una donna che non cerca giustificazioni, né indulgenze: si porta addosso il proprio fallimento con un’ironia spigolosa e una forza quasi silenziosa. Il suo capolavoro, “L’arte della gioia (che sarà poi pubblicato postumo) è ancora inedito, nessuno vuole pubblicarla, e lei si arrangia con lavori occasionali. Eppure, mai come in quel tempo “inutile” e afoso, il tempo estivo di una Roma che sembra immobile, Goliarda si scopre profondamente legata alla vita. Ma non alla vita come sistema sociale o come successo da rincorrere: alla vita come umanità, affetto, scambio.

È in carcere, paradossalmente, che l’autrice ha incontrato la forma più autentica di solidarietà. E questo paradosso è il cuore del film. La frase “Loro sono dentro anche quando sono fuori. E quando sono con loro, anch’io mi sento ancora dentro” è uno dei fulcri poetici ed etici dell’opera. In quelle parole c’è tutto il cortocircuito che Martone mette in scena: la libertà non sta fuori dalle sbarre, non sta nel rispetto delle convenzioni o nei salotti colti da cui Goliarda si sente espulsa. La libertà è un’esperienza interiore, relazionale, viscerale. Sta nello spazio comune tra sé e l’altro, quando ci si riconosce nella propria nudità.

 

"Fuori" di Mario Martone: la libertà secondo Goliarda Sapienza

 

Il rapporto che nasce tra Goliarda e le altre detenute, Roberta (Matilda De Angelis ) e Barbara ( Elodie alla sua seconda esperienza cinematografica ) sfugge a ogni definizione. Particolare è soprattutto il legame con Roberta, una De Angelis impetuosa e carismatica: le due donne si attraggono, si odiano, si curano, si feriscono. Sono amiche, amanti, madre e figlia. Ma nulla di ciò che le lega è incasellabile. La loro relazione ha la forma di un respiro: si espande, si contrae, si interrompe, ritorna. È un legame che non chiede di essere spiegato, ma vissuto. Ed è proprio nella libertà di non dover dare un nome ai sentimenti che si avverte il segno più forte dell’identità di Goliarda, e della sua scrittura. Una scrittura che non ha mai chiesto permessi, né legittimazioni. E che oggi, attraverso lo sguardo del cinema, si fa ancora una volta voce di una ribellione profonda.

Martone non costruisce una parabola biografica lineare. La sua narrazione è ellittica, sensoriale, governata dalla logica intermittente dei ricordi. I giorni del carcere riaffiorano attraverso dettagli minimi, squarci di memoria. Il tempo “fuori”, quello della città, invece, appare sospeso, quasi irreale. Roma, magnificamente filmata da Paolo Carnera, è un personaggio a sé: deserta, lontana dal turismo di oggi, brucia sotto il sole e sembra quasi evaporare tra cicale e silenzi.

E proprio la storia di quel periodo è l’altro elemento con cui il film dialoga continuamente, pur senza mai renderla protagonista esplicita. La strage di Bologna, il terrorismo, il brigatismo affiorano appena, come echi lontani: nel titolo di un giornale, in una frase di Roberta, nella data che compare su un orologio da ufficio. È la Storia che sta “fuori campo”, ma che è comunque presente.

C’è una coerenza totale nel modo in cui Martone costruisce l’immagine filmica del concetto di “libertà”: attraverso la ricorsività degli spazi, le inquadrature che incorniciano le protagoniste come dentro gabbie invisibili. Una finestra, un bar del centro, il retrobottega di una profumeria, le panchine della stazione. Il carcere è ovunque, anche nel mondo esterno. Eppure, proprio lì, in quei luoghi di reclusione simbolica, si aprono varchi emotivi, possibilità di contatto, spazi di senso. Come se il “fuori” non fosse altro che un altro “dentro”, e viceversa.

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