Viene naturale, guardando “Queer”, fare un confronto con il suo fratello maggiore Call Me By Your Name (2017). Ma mai due film così diversi potevano uscire dalla mente dello stesso padre. Nel film che vedeva protagonista un giovane Timotheè Chalamet, infatti, Luca Guadagnino esplorava il desiderio attraverso la lente della dolcezza, dell’iniziazione e dell’estate eterea. Un film che si muoveva verso la celebrazione dell’amore, anche se destinato a svanire.
In “Queer”, invece, l’amore è un sentimento frustrato, disperato, non corrisposto. Non c’è da aspettarsi una storia d’amore, perché questo film non racconta niente del genere: “Queer” mette in scena l’inquietudine stessa del desiderare.
Guadagnino qui mostra nuove abilità registiche, tendenti verso un minimalismo espressivo che però ha poco a che fare con l’essenzialità e molto, invece, con la complessità emotiva. Il movimento di macchina, pur continuo, non è mai gratuito: steadycam leggere, movimenti ellittici e carrellate lente costruiscono una geografia sentimentale più che spaziale.
Gli ambienti — bar fumosi, stanze d’albergo claustrofobiche — sono attraversati dalla cinepresa come se fossero estensioni psicologiche dei protagonisti. A sostenere questa atmosfera, la fotografia alterna una tavolozza calda e polverosa nella prima parte messicana a tonalità più fredde e contrastate nel viaggio in Sud America. Una costruzione visiva che, nel suo equilibrio sospeso tra luci e vuoti, evoca a tratti l’immaginario di Edward Hopper: solitudini cristallizzate, paesaggi interiori catturati nell’istante esatto in cui il desiderio incontra il suo fallimento.
La regia lavora sui pieni e sui vuoti: Guadagnino sembra interessato a ciò che sta tra un gesto e l’altro, tra una parola e l’altra. In questa costruzione dilatata del tempo emotivo si inserisce un montaggio (firmato da Marco Costa) che rifiuta la logica causa-effetto tipica del racconto tradizionale. I tagli sono morbidi, a volte quasi invisibili, altre volte volutamente “sfasati”, come se volessero frammentare la linearità percettiva dello spettatore.
Viene costruito così un flusso visivo che ricorda il vagare di una mente infatuata, fatta di ossessioni, fantasmi e ritorni infiniti sull’oggetto del desiderio. Non si tratta di rendere “chiaro” il racconto, ma di aderire al battito disordinato delle emozioni. Il tempo del film, dunque, se può sembrare molto lento è perché segue il ritmo della maliconia.
Nel restituire queste emozioni Daniel Craig compie in Queer una trasformazione radicale, lontanissima dai ruoli iper-mascolini che lo hanno reso celebre (primo fra tutti James Bond). Qui Craig interpreta Lee, un uomo in bilico tra l’ossessione amorosa e l’autodistruzione, tratteggiandolo con una vulnerabilità cruda, quasi imbarazzante per quanto è autentica.
Craig lavora molto di sottrazione: il suo corpo, in passato simbolo di forza ed efficienza, qui è segnato, appesantito, goffo nei movimenti. Il suo sguardo è la vera arma narrativa: uno sguardo che cerca costantemente, che domanda senza trovare risposta, che si perde in un desiderio impossibile da afferrare. Non c’è eroismo nel suo Lee, solo un bisogno disperato di appartenenza.
Drew Starkey, che interpreta Allerton, l’oggetto del desiderio, è straordinario nella sua ambiguità. Non è mai del tutto seduttivo né del tutto respingente; è una presenza sfuggente, costruita su piccoli gesti, su silenzi più che su dichiarazioni. Starkey riesce a incarnare quella neutralità erotica che è la chiave del film: Allerton è uno specchio in cui Lee proietta i suoi sogni e le sue frustrazioni, più che un soggetto autonomo.
E l’interazione tra questi due personaggi è fatta di microscopiche vibrazioni emotive: un accenno di sorriso, una distanza corporea che si accorcia o si amplia senza mai diventare abbraccio. È una danza tragica e meravigliosamente umana.
“Ciò che l’amore esige non è tanto essere amato quanto essere riconosciuto.”
(Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso)
Pur nella sua forza visiva e nella profondità emotiva che spesso riesce a toccare, Queer è un film che non sempre riesce ad arrivare pienamente allo spettatore. Guadagnino costruisce un universo sensoriale vivido, fatto di strade bruciate dal sole, odori di tabacco e sudore, luoghi attraversati da un protagonista che non cerca tanto un corpo, quanto una presenza che possa placare il suo isolamento. Craig incarna questa solitudine con grande finezza, mantenendo un’apparente calma sotto cui affiora un desiderio più umano che sessuale: il bisogno, disperato e trattenuto, di essere visto, riconosciuto, amato.
Il regista lavora con sovrimpressioni poetiche e momenti di forte manipolazione visiva, alternando delicatezza e intensità. Tuttavia, soprattutto nella parte finale, l’insistenza sugli effetti digitali — che cercano di rendere visibile l’interiorità del protagonista — rischia di disperdere l’emozione, rendendo il racconto più frammentato e meno toccante.
La malinconia di fondo, che attinge direttamente all’opera di Burroughs, si traduce in un pessimismo mai edulcorato, sostenuto da scelte stilistiche volutamente anacronistiche: dalle canzoni ai contrasti cromatici tra la prima parte messicana e il viaggio oscuro in Sud America. Il desiderio di connessione resta però costantemente frustrato: anche nei momenti di intimità, i corpi vengono separati dal montaggio, suggerendo che nessuna fusione, nessuna vera comunione, è possibile.
“Queer” resta così un film affascinante e imperfetto, che racconta l’impossibilità di colmare davvero la distanza che separa gli esseri umani. È un film che non offre conforto né rivendicazioni: è un atto poetico di resa alla fragilità del sentimento umano, nel suo manifestarsi e nel suo disfarsi, eternamente.
Studio Cinema e Spettacolo alla Federico II di Napoli. Redattrice cinefila in perenne lotta con film troppo lunghi e trame incomprensibili.