“A volte ti ama di più chi ti lascia andare, che chi ti trattiene” è la frase dolceamara che riassume “Il Treno dei bambini“, un film che arriva dritto al cuore. Diretto da Cristina Comencini, questo adattamento dell’omonimo romanzo di Viola Ardone ci trasporta in uno spaccato di realtà difficile da immaginare per noi oggi, quello di una Napoli distrutta dalla miseria e dalla povertà nell’Italia del secondo dopoguerra.
Non a caso al primo posto su Netflix tra i film più visti in questo periodo pre-natalizio, “Il Treno dei bambini” arriva a dialogare anche con chi è ignaro dei fatti narrati dal libro, grazie soprattutto alla sua capacità di toccare temi universali quali l’infanzia, la maternità, la separazione dalla famiglia, attraverso una storia estremamente delicata e sincera.
Siamo nel 1944, Amerigo Speranza è un bambino di otto anni che, insieme ad altri figli di famiglie povere del Sud, viene temporaneamente adottato da una famiglia del Nord, per decisione di sua madre Antonietta, che desidera salvarlo dalla miseria e dalla denutrizione.
Il piccolo protagonista viene quindi accolto da Derna, un’operaia comunista di Modena che con iniziale riluttanza ( visto che il ragazzino era originariamente destinato ad un’altra famiglia) si prende cura di lui e pian piano, gradualmente, gli si affeziona. Al Nord i bambini trovano cibo, vestiti, istruzione e nuove opportunità di vita, e quello che per Amerigo sembrava solo un rito di passaggio, diventa un percorso di distacco e dolore, ma anche di crescita.
La vera storia dei “treni della felicità”
“Il Treno dei bambini” riporta all’attenzione pubblica una vicenda sconosciuta ai più, ma che dice tanto del nostro Paese. Nel biennio 1945-1947 si organizzarono i cosiddetti “Treni della felicità”, attraverso cui circa 70mila bambini provenienti dal Sud e dal centro Italia venivano affidati temporaneamente ad altre famiglie che vivevano in zone del Nord meno colpite dalla guerra. Si trattò di una grande impresa di solidarietà, organizzata dall’Unione Donne Italiane e del Partito Comunista.
Così, all’insegna del detto “dove si mangia in due si può mangiare in tre”, alcune famiglie non troppo abbienti mostrarono la loro immensa generosità in un periodo spaventosamente oscuro della nostra storia.
La stessa Serena Rossi ha raccontato in un’intervista che sua nonna Concetta, che oggi ha 84 anni, era una di quei bambini. Accolta a Modena nel ’46 da una famiglia splendida, è riuscita poi a rimettersi in contatto con uno dei suoi coetanei con cui aveva stretto amicizia. L’attrice ha parlato quindi di come con “Il treno dei bambini” e con il suo ruolo di Antonietta si sia sviluppato indirettamente un legame profondo, vivendo una storia che in qualche modo le appartiene.
Un potente messaggio d’amore
Il potere de “Il Treno dei bambini” sta nel raccontare un messaggio di grande valore, che attraversa epoche e generazioni, mediante una storia familiare più piccola e circoscritta, una di quelle vicende che restano spesso senza voce. Nel fare ciò, la regia di Cristina Comencini non è barocca o sovversiva, e non arriva ad eguagliare l’originalità di “C’è ancora domani”: il confronto è dovuto dal momento che c’è un’analogia tra i temi trattati in entrambi i film e nella maniera di ispirazione neorealista in cui questi sono messi in scena, complice anche la mano dei due sceneggiatori in comune Furio Andreotti e Giulia Calenda.
La regista qui non prende posizioni politiche, e tutto ciò che vediamo passa prevalentemente attraverso gli occhi infantili del piccolo Amerigo e attraverso il suo rapporto dualista con le sue madri, due donne imperfette ma a loro modo forti e caparbie in un mondo dominato dal patriarcato. Entrambe sono premurose nei confronti del loro bambino e si dimostrano coraggiose nel prendere decisioni faticose, pur di fare il suo bene.
In questo Serena Rossi, nel ruolo di Antonietta, offre una performance intensa, capace di raccontare con il solo sguardo la sofferenza di una donna costretta a scegliere, a suo stesso scapito, la via più giusta per il proprio figlio; così come anche Barbara Ronchi riesce a restituirci con grande autenticità il sentimento materno che Derna sviluppa, in maniera quasi inconsapevole, nei confronti del suo piccolo ospite.
Lo stile cinematografico è visivamente studiato a suggerire la percezione di due realtà inesorabilmente distanti l’una dall’altra. La fotografia si concentra su due paesaggi contrastanti: la strada, il disordine, la sporcizia, i colori cupi dei Quartieri napoletani, da un lato; la natura rigogliosa, la vita lenta, le tinte sature della campagna modenese, dall’altro. Amerigo, interpretato con tenerezza e genuinità da Christian Cervone, svilupperà in ognuno di questi contesti e accanto ad ognuna delle due madri la consapevolezza di una verità dolorosa ma purtroppo necessaria: quella di dover abbandonare la sua città natale per sempre per trasferirsi definitivamente al Nord, lasciandosi alle spalle la sua infanzia di stenti e il ricordo antitetico di sua madre.
Le musiche di Nicola Piovani ( famoso soprattutto per aver composto la colonna sonora di “La vita è bella”) sottolineano le dinamiche del film con grande leggerezza, seguendo i sentimenti di odio, rabbia, tristezza ma anche gioia, ilarità, sorpresa provati da Amerigo e dai suoi compagni di viaggio.
Negli anni ’90 Amerigo è un affermato violinista, torna a Napoli per il funerale della madre che non ha mai più rivisto e del rapporto avuto con lei è rimasta solo una serie di malintesi. Entra in quella che una volta era la sua casa, guarda sotto il letto e ritrova con sua sorpresa il violino che Antonietta aveva dato a sua insaputa ad un banco dei pegni, scoprendo che la madre aveva saldato il debito in modo che un giorno lo strumento potesse ricongiungersi al suo proprietario.
La lettera che Antonietta lascia ad Amerigo dopo la sua morte chiarisce che lei avrebbe potuto tentare di riavere il figlio, ma che ha scelto di non farlo, per concedergli di avere un futuro migliore insieme alla sua nuova famiglia. Con un nodo alla gola ci troviamo ad accettare che l’amore ha tante facce. Talvolta può risultare brutale, ma “voler bene”, nel modo in cui forse solo un genitore “vuole bene”, significa anche riuscire a non peccare di egoismo e imparare a lasciare andare.
Sulle note di “Uocchie c’arraggiunate“, cantata fuori campo dalla dolce voce di Serena Rossi, vediamo per l’ultima volta in flashback quegli ‘occhi che ragionano’, gli occhi di una madre che nulla dice ma che sa già tutto, mentre tende le braccia e cinge a sé il frutto del suo amore.
Laureata in Archeologia, Storia delle Arti e Scienze del Patrimonio Culturale alla Federico II di Napoli. All’età di 5 anni volevo fare la “scrittrice”, mentre adesso non so cosa di preciso mi riserverà il futuro. Ma una cosa certa è che la scrittura risulta essere ancora una delle mie attività preferite, una delle poche che mi aiuta di tanto in tanto ad evadere dal mondo.