Marta Cai tipo psicanalisi

Marta Cai in libreria per Tetra: l’intervista

A partire da ottobre, la casa editrice Tetra è tornata in libreria con un’interessante novità: una fresca selezione di quattro storie, permettendo ai lettori di esplorare le scritture di Demetrio Paolin, Dario Voltolini, Alessandro De Roma e Marta Cai.

Quest’ultima ha scritto Tipo Psicanalisi. Vediamo di cosa si tratta.

Tipo psicanalisi - Marta Cai - copertina

L’opera

Tipo Psicanalisi, il nuovo racconto di Marta Cai, inizia con una famiglia che si compone di padre, madre e una figlia adolescente. Si mettono in viaggio verso una clinica in Svizzera per consultare un esperto della psicosomatica, seguendo l’indicazione del medico della mutua, al fine di curare la madre. L’autrice, finalista del premio Campiello, affronta il tema dell’allontanamento da sé e della sua scoperta con uno stile che oscilla tra un linguaggio spontaneo e uno più controllato, esplorando ciò che rimane non detto. Con ironia e apparente leggerezza, Cai tratta l’evolversi di una consapevolezza nei tre protagonisti, ignari degli eventi che li attendono. I genitori, in apparenza ordinari, con una vita comune in una cittadina tranquilla, rivelano al discernimento acuto e ironico della figlia la loro inadeguatezza persino di fronte alle terapie alternative. Attraverso i dialoghi e i monologhi della ragazza emerge progressivamente la consapevolezza di un’ambiguità nascosta nelle vite delle persone.

L’autrice

Nel 1980 a Canelli è nata Marta Cai, che da qualche tempo risiede a Curitiba, in Brasile. Oltre alla scrittura, si è dedicata alla traduzione di numerosi libri. Parte dei suoi racconti ha trovato spazio su riviste come «inutile» e «il Reportage», mentre nel 2019 ha dato vita alla sua prima raccolta, “Enti di ragione”, edita da SuiGeneris. Nel 2023, l’editore Einaudi ha presentato il suo romanzo “Centomilioni”.

L’intervista

 Qual è libro a cui sei più attaccato emotivamente o che ti ricorda l’infanzia?

Le avventure di Pinocchio, senza esitazioni. Per me è sinonimo di infanzia, di quel periodo irripetibile in cui ogni cosa è ‘vera’ e entra in noi per costituirci, inermi e curiosi come siamo: mi è stato letto e riletto quando ancora non sapevo leggere e io stessa l’ho letto e riletto ai miei figli, durante vere e proprie performance ipnagogiche, perché Pinocchio ha una sonorità intrinseca e caleidoscopica scaldata da un lessico di pongo che non dà scampo, avvinghia con la magia delle parole strane, cioè comprensibili a metà (le «formicole», le «vecce», i «balocchi»: che diavolo sono?). Pinocchio è uno scrigno di meraviglie comiche e dolenti che fanno da contrappeso realistico al martellamento pedagogico sulla necessità di diventare bambini buoni: se ha una morale, è quella di non illuderci troppo rispetto all’orrore che incontreremo crescendo, ma intanto concentriamoci sull’avventura non mortificante di vivere e raccontare. E l’inizio? Meglio della sorpresa dell’uovo di Pasqua! Prende subito in contropiede il lettore correggendolo nelle sue aspettative, sbattendogli in faccia l’inaudito (nessun re, solo un pezzo di legno). Mi fece balzare nel lettino: «Ma allora chi l’ha scritto sa di me, sa cosa penso! Ci sono anch’io nella favola!». Geniale, mai più provato un entusiasmo simile per un libro.”

Qual è, invece, il titolo imperdibile per comprendere la società attuale?

Domanda difficilissima. Dovrei avere un’idea chiara di cosa sia la società attuale (possiamo dire che ce ne sia una sola?) e aver letto tutti i libri almeno dell’ultimo lustro per rispondere degnamente. Ma avanzo lo stesso una modest proposal: nel suo La verità e la biro, Tiziano Scarpa, un talento unico per i movimenti del ragionamento e delle frasi, ci porge il punto di vista di un io «situato», vale a dire dichiaratamente difettivo, esposto, legato agli inciampi della corporeità, della propria biografia e delle inevitabili ipocrisie ambientali, opposto allo spettacolo (prepotente) di se stessi che è il narcisismo, capovolgendo buona parte di quello che avremmo voluto sapere ma non abbiamo avuto il coraggio di chiedere sulla sincerità, la verità, l’esibizionismo e, stando nel secondo corno del titolo, su come si può scrivere di tutto questo. Da qualche tempo i prefissi davanti alla parola -fiction generano libri e litigi: chissà che spostare l’attenzione sulla radice non aiuti a capire perché ci interessa tanto questo argomento.”

Parliamo del rapporto con i lettori: come gestisci le critiche?

Non le gestisco: le critiche non si possono cambiare quando hanno ragione perché hanno ragione e quando non ce l’hanno esattamente perché non ce l’hanno. Questa battuta (se lo è) per dire che quando qualcuno individua effettivi punti deboli in quello che ho scritto mi fa un favore, quando mi chiede di giustificare alcune scelte per meglio comprenderle, ancora di più. In una categoria a parte rientrano quelle che definisco “stroncature offese” (di solito iconograficamente accompagnate da un sistema di stellette). Non le capisco, non so come prenderle: è come se mi venisse rinfacciato un torto, un’usurpazione, quasi avessi sottratto per sempre agli altri, o a quel lettore in particolare, le parole che ho scritto, gli avessi buttato l’immondizia nel giardino, l’avessi obbligato a leggermi con minacce o lusinghe (che funzionano meglio). Ecco, per tornare alla risposta precedente, forse rivedere il concetto di “narcisismo”, anziché continuare a colpirlo come una pallina da ping pong nella speranza di fare punto su un ipotetico avversario, potrebbe migliorare, in senso bidirezionale, il rapporto tra alcuni che scrivono e alcuni che leggono (non voglio generalizzare).”

E i complimenti, invece?

La mia educazione sentimentale è avvenuta in Piemonte, dove si risponde a un complimento vergognandosi (“ecco, ho esagerato e adesso come faccio?”), oppure esercitando una sofisticatissima ermeneutica del sospetto, che con il tempo ho imparato a limitare. Tendo per natura alla prima reazione e la perfeziono con l’arte della dissociazione (“non sta parlando di me”).

A proposito del racconto realizzato per Tetra: chi dovrebbe assolutamente leggerlo?

“Nessuno (cfr. risposta 3); oppure le persone che quando si trovano a loro disagio attivano i meccanismi della lucidità, e magari si divertono.”