Le attuali tecnologie computerizzate hanno permesso alla produzione artistica contemporanea di esplorare la dimensione tridimensionale nel rapporto tra il pubblico e i contenuti degli eventi.
Dalle prime avvisaglie alla fine del secolo scorso, la mostra digitale immersiva ha piano, piano conquistato le persone rese partecipi nel flusso cromatico e contenutistico che le avvolge totalmente, coinvolgendole e facendole sentire parte di una percezione singolare e nello stesso tempo collettiva dell’opera, nella quale divengono coprotagonisti.
Le tipologie
Se inizialmente le soluzioni immersive erano perlopiù associate a rappresentazioni interattive di mostre di grandi artisti (Leonardo da Vinci, Caravaggio, Van Gogh, Dalì o Bansky), la fascinazione che tale espediente tecnologico ha esercitato sul pubblico è stata la molla che ha spinto molti artisti a impostare il proprio lavoro creando “stanze” in cui la luce, i colori e gli elementi presenti quali videoproiezioni, specializzazione sonora, light art e presenza di attori diano origine a un ambiente in cui, appunto, immergersi e fare parte della struttura stessa immaginata dall’autore. O anche utilizzando la exended reality, cioè dispositivi indossabili come visori o altre tecnologie informatiche, le quali trasportano le sensazioni di chi partecipa altrove, all’interno di realtà virtuali.
Fonte foto: Rogues Hollow Production
Le ambiguità
Certo la suggestione e il coinvolgimento sono intensi e riescono a smuovere le emozioni dei partecipanti, ma se da una parte l’utilizzo nel campo artistico di queste nuove tecnologie è oltre che auspicabile anche molto interessante dal punto di vista delle proprio delle sensazioni e delle riflessioni psicologiche che possono creare in chi le vive, dall’altra si prestano a facili espedienti ludici che rischiano di essere volti solo a generare stupore e a non veicolare nessun messaggio.
Ricordo, una Biennale di Venezia di qualche decennio fa, il padiglione russo presentava l’opera “Vento idiota” di due artisti di cui purtroppo non rammento i nomi. Il lavoro consisteva semplicemente in un tunnel avvolto nella semioscurità nel quale entrava una persona alla volta. Inizialmente dentro il passaggio soffiava una leggera brezza che andava aumentando man, mano che si procedeva. Infine la brezza diventava un vento intenso e continuo che investiva il visitatore. Non c’era molto di tecnologico in quella installazione ma dava modo di confrontarsi con se stressi, con le proprie paure e con la cognizione del proprio essere.
È questo guizzo di crescita personale che mi aspetto e auspico nelle esperienze immersive presenti e future.

Dopo aver seguito studi artistici si interessa appassionatamente ad approfondire i meccanismi e l’evolversi della storia dell’arte contemporanea.
Proprio in qualità di critico d’arte e corrispondente, negli anni ’80 e ’90, ha firmato saggi e recensioni per alcuni dei maggiori periodici del settore, tra i quali: Terzoocchio delle edizioni Bora di Bologna, Flash Art di Milano Julier di Trieste ed il genovese ExArte .
Inoltre affiancherà attivamente come consulente la famosa galleria d’Arte avanguardistica Fluxia durante tutto il periodo della sua esistenza.
Ha partecipato all’organizzazione di numerosi eventi, tra i quali l’anniversario del centenario dell’Istituto d’Arte di Chiavari e la commemorazione del trentennale della morte del poeta Camillo Sbarbaro a S. Margherita L.
Nel 2010 pubblica il suo primo romanzo: “La strana faccenda di via Beatrice D’Este”, un giallo fantasioso e “intimista”.
Nel 2018 pubblica il fantasy storico “Tiwanaku La Leggenda” ispirato alla storia ed alle leggende delle Ande pre-incaiche.
Attualmente collabora con alcuni blog e riviste on-line come “Chili di libri, “Accademia della scrittura”,
“Emozioni imperfette”, “L’artefatto”,” Read il magazine” e “Hermes Magazine” occupandosi ancora di critica d’arte e di recensioni letterarie.