Lutto Perinatale: Grazie. Perché anche grazie a loro sono diventata mamma di ogni figlio che ho desiderato

Quando ho deciso di scrivere questo articolo, intervistando Erika Zerbini, mi sono resa conto di quanto vivere il dolore e sentirlo sia una delle tappe fondamentali per accettare che, anche quello che fa male e ti lacera l’anima, fa parte inesorabilmente della vita di noi tutti. Soprattutto quando in questo dolore vengono coinvolti i bambini. Quello in cui ci addentreremo in questa intervista, tra queste parole, è uno degli “affanni” più dolorosi che colpiscono molte famiglie della nostra società. La perdita di un figlio appena nato, o la perdita di un figlio durante la gravidanza, meglio conosciuto come lutto perinatale. Ma perché parlarne? Spesso le persone nei confronti di queste madri (perché di madri si tratta ed è bene ribadirlo) si approcciano con frasi come “Sei ancora giovane!” ,“Non era destino”“Vedrai, la prossima volta andrà meglio!” E quasi senza volerlo, banalizzano un dolore che comunque c’è, si sente ed è devastante per chi lo vive in prima persona. Perdere un bambino in quel modo infatti significa privare per sempre i genitori di qualcosa che si stava iniziando a scorgere e a costruire. Il dolore di questi genitori non ha nulla che fare con il tempo di gestazione ma con l’investimento affettivo che i due hanno dato a questo nuovo arrivo, per questo è importante avere una spiccata sensibilità e soprattutto buon senso nel rivolgersi e trattare di questi argomenti con chi li ha purtroppo vissuti.

Il lutto perinatale e prenatale sono veri e propri traumi psicologici che non hanno un decorso semplice. Sono ferite nell’anima che faticano a rimarginarsi anche a distanza di molto tempo. Per questo bisogna pesare alle parole e capire che le emozioni di entrambe le figure genitoriali sono stati personali dinamici che portano a sperimentare reazioni differenti. Il lutto infatti non segue un’elaborazione lineare, quale: negazione, rabbiacontrattazionedepressione e accettazione.

Insomma, è una situazione molto complessa da spiegare (che oltretutto si può ripercuotere anche a livello fisico su chi si trova ad affrontarla). Però ho voluto provare a dar voce a quelle lacrime non riconosciute attraverso la testimonianza di una mamma. Erika, infatti, mi ha concesso questa intervista, leggiamo insieme quello che ci ha raccontato:

Ciao Erika, come stai? Grazie per avermi concesso questa intervista! E grazie per la possibilità che mi stai dando di raccontare questo “mondo” che per molti è ancora un tabù! Parlaci un po’ di te! Chi è Erika, da dove vieni? E soprattutto di cosa ti occupi nella vita?

Ciao a te, Alessia, e ai tuoi lettori! Io mi chiamo Erika e sono una mamma. Tris mamma per chi mi vede e penta mamma per chi mi conosce. Abito nella provincia di Genova, nella vita mi occupo della mia famiglia e di lutto perinatale. Quasi dieci anni fa due delle mie figlie sono morte durante il secondo trimestre di gravidanza e cercando il mio modo di uscire dal lutto, ho scoperto quanto fosse profondo e ricco di risvolti questo ambito, al punto da appassionarmi tanto da non smettere più di indagare in esso e divulgare ciò che comprendo e apprendo.

Leggendo i tuoi libri, documentandomi e parlando un po’ con te, ho scoperto che ti occupi di lutto perinatale, un tema che ancora oggi è poco conosciuto, ma andiamo con calma e a piccoli passi, che cosa è il lutto perinatale, in termini tecnici?

Il lutto perinatale in realtà non è facilmente definibile in termini temporali: lo stesso sentimento di profondo dolore può essere avvertito anche quando la morte del piccolo avviene prima delle 28 settimane o dopo i 28 giorni di vita. Il lutto perinatale porta in sé caratteristiche che non hanno a che vedere tanto col tempo, piuttosto con la particolarità della morte: essa avviene spesso dentro il corpo della madre – fatto a cui non siamo preparati e che può destabilizzare molto; la morte avviene spesso durante il formarsi della vita; la morte impedisce di costruire uno storico di vita condiviso con la società, impedisce di collezionare ricordi materiali (foto, oggetti, aneddoti, ricorrenze) pertanto sembra che il compianto non sia vissuto veramente. Queste peculiarità lasciano i dolenti in una situazione particolare: patiscono la dipartita di qualcuno che non è riconosciuto socialmente, che è morto quando non è pensabile la morte, lasciandoli soli non unicamente perché senza di lui, bensì anche senza il tessuto sociale e le ritualità che normalmente accompagnano una morte. Quando le persone perdono un piccolo che amano (può essere un figlio, un fratello, un nipote, ecc.) e avvertono questo senso di solitudine, disconoscimento e assenza di riferimenti, unito alla sofferenza che la morte porta in sé, allora patiscono il lutto perinatale, a prescindere dall’epoca gestazionale o l’età in cui è morto il loro amato.

Un lutto è visto come trauma psicologico, che nel tuo libro descrivi, come un evento che non ti fa più essere una donna come quella di prima, tu Erika in cosa ti senti cambiata?

Potrei risponderti: in quasi tutto. La morte delle mie figlie mi ha obbligato a  pormi domande che non mi ero mai posta in modo autentico, fino a quel momento. Quanto spesso mi sono chiesta quale fosse il senso della mia vita prima della loro morte! Ma solo dopo, questa domanda ha acquisito veramente senso. La loro morte ha spazzato via l’idea che avevo di me e della mia vita. Nasciamo già con un progetto sulle spalle: la società ce lo assegna fin da piccolissimi. Comincia con una domanda retorica: «Cosa vuoi fare da grande?» Poi prosegue dando per scontato che troveremo un lavoro, un partner, ci sposeremo, metteremo su casa e faremo figli. La morte delle mie figlie mi ha mostrato chiaramente le sovrastrutture in cui mi muovevo, facendo crollare l’idea che avevo di me e del mio futuro. Davanti a me avevo una pagina completamente bianca: chi ero davvero? Cosa desideravo per me? Qual era il mio senso? O meglio: quale senso avrei voluto dare alla mia vita? Sono passata da essere soggetto passivo a soggetto attivo della mia esistenza.

C’è qualcosa della te prima di perdere un figlio che conservi?

Conservo le mie maternità e la mia scelta di famiglia. So che non sono diventata madre perché la società me lo ha richiesto e se lo aspettava: sono diventata madre perché profondamente il mio senso è sempre stato lì. Tuttavia oggi il mio senso non è solo lì: si è notevolmente ampliato.

Ti va di raccontarci le tue esperienze? Che cosa hai vissuto e come ti sei sentita?

È accaduto che alla 21esima settimana di gravidanza, durante la morfologica, la ginecologa ha appurato l’assenza di battito, così ho dovuto partorire mia figlia morta. Dovete sapere che per me quello fu il primo parto naturale, nonostante fossi già madre di due bambine. Per me partorire naturalmente una figlia morta era una beffa del destino che proprio non mi aspettavo di dover affrontare. Poi è nata la mia bambina e, anche se era piccola e morta, io ho sentito un profondo legame con lei: senza ombra di dubbio lei era mia figlia ed io sua madre. Pareva fosse stato il cordone ombelicale a toglierle la possibilità di crescere. Ho pensato che più figli avessi scelto di generare e più le possibilità di incappare in qualche problema sarebbero aumentate: quella volta era andata così. L’ho presa come il prezzo che talvolta si paga volendo vivere pienamente la propria esistenza. Restavo fra quelli che desideravano vivere pienamente e volevo fortemente diventare mamma di un figlio vivo. Così è arrivata un’altra bambina, morta in grembo a 17 settimane. Ho partorito naturalmente anche lei. Mi è sembrato di non saper più far altro che generare morte e riprendermi è stato più complesso. Mi sono chiesta quale fosse il senso di tutto questo e il mio senso: perché vivere, se alla fine si muore? Noi siamo abituati a pensare che il nostro vivere debba essere in funzione di altri o altro (come Dio per chi ci crede).  I figli per una madre sono il senso assegnato d’ufficio. «Vivi per i tuoi figli», mi sentivo dire. «I vivi hanno bisogno di te.»  Mentre i morti non contavano nulla: tanto erano morti. Tuttavia per me i miei figli contavano tutti allo stesso modo: vivi e morti. Così avrei potuto vivere per i vivi come morire per i morti. Io volevo vivere o morire? Rispondere a questa domanda ha determinato il punto di partenza per ricostruire la mia esistenza: io volevo vivere, per me. L’anno dopo è nato il mio ultimo figlio: vivo.

Hai scritto molti libri a riguardo, c’è un filo conduttore che li accomuna?

Il filo conduttore è la mia indagine nel lutto perinatale, a partire dalla mia esperienza, come dolente e poi come persona accanto ai dolenti. Questione di biglie (Eidon edizioni, 2012) racconta le mie esperienze di lutto perinatale; Nato vivo (YouCanPrint ,2018) racconta la gravidanza dopo il lutto perinatale. Aspettare un figlio dopo la morte di suo fratello, è un’esperienza impegnativa a cui non si dà il peso che ha. Chiamami mamma (YouCanPrint, 2018) è una raccolta degli articoli più significativi che nel tempo ho pubblicato nei blog che curo (Professionemamma.net e Luttoperinatale.life) e in altri siti; Insieme (YouCanPrint, 2018) è un albo illustrato per la famiglia che si propone di aiutare i genitori ad affrontare la morte perinatale con gli altri figli: spesso i bambini sono tenuti all’oscuro di questa parte della loro storia familiare perché i genitori non sanno come affrontare l’argomento, e nel silenzio talvolta generano mostri difficili da governare. Attraverso il lutto perinatale (YouCanPrint, 2020) è una sorta di manuale di auto aiuto, nel quale è racchiuso tutto ciò che ho appreso ed è importante (secondo me) tenere presente, nel caso di un lutto perinatale. Ho cercato di compiere un percorso nel lutto, affrontando le tappe che generalmente si presentano, rispondendo alle domande ricorrenti e offrendo spunti al lettore.

Parliamo ora di lutto, esteso alla famiglia, soprattutto ai più piccoli, nel tuo percorso hai voluto parlare anche loro attraverso un albo illustrato che hai intitolato “Insieme”, quanto è importante parlare della morte ai più piccoli?

Parlare di morte ai più piccoli è fondamentale. Noi oggi paghiamo il silenzio sulla morte degli ultimi decenni: non siamo in grado di stare accanto ai luttuanti perché non sappiamo come rapportarci alla morte. Siamo persi di fronte alla morte di un nostro caro perché non abbiamo alcune dimestichezza con la morte ed il morire. Se vogliamo che i nostri figli siano più attrezzati di noi, dobbiamo fornire loro maggiori strumenti.

Che cosa si dovrebbe dire, o come ci si dovrebbe comportare, con i bimbi che purtroppo vivono queste situazioni?

Non ci sono regole fisse, ciò che conta è essere autentici. La morte porta dolore e sofferenza e per un po’ questa pena sarà una parte importante delle giornate, poi però le cose andranno migliorando. Verbalizzare i sentimenti, spiegare come ci sentiamo e offrire lo stesso spazio ai piccoli è molto importante. Loro imparano da noi ‘come si fa’. Imparano dal nostro esempio. Se noi ignoriamo, neghiamo, sminuiamo, ci mostriamo spaventati di fronte alla morte, loro apprenderanno che questo è il modo corretto di comportarsi, quando qualcuno muore.

E riguardo la figura paterna?

I papà sono ignorati più delle madri, quando si tratta di morte perinatale. C’è la falsa credenza che non avendo vissuto loro figlio nel corpo come le madri, non abbiano sviluppato un legame significativo con lui e non provino dolore per la sua perdita. Invece anche loro sono senza. Anche a loro è morto un figlio. Il modo di affrontare la perdita e di approcciarsi alla morte, non è lo stesso della partner, un po’ perché donne e uomini crescono con aspettative e sovrastrutture sociali differenti, un po’ perché ognuno di noi è unico e affronta la vita e la morte a modo suo.

Il dolore del papà nell’elaborazione di un lutto perinatale, per le tue esperienze che cosa ci puoi dire a riguardo? I papà, a differenza delle madri come le vivono determinate situazioni?

I papà tendono a proteggere le loro partner. Sono più razionali e mostrano meno la loro emotività. Questo a grandi linee. Ho conosciuto papà che facilitano gruppi di auto mutuo aiuto per genitori in lutto perinatale, che sostengono altri genitori, che sono molto attivi nella sensibilizzazione delle ricadute di questo lutto. I papà sanno esserci, non meno delle mamme.

Se dovessi personificare il dolore di una perdita di questo tipo, che immagine le daresti e perché?

Hai presente quando Alice nel paese delle Meraviglie cade nel buco? Ecco, per me è stato così. Cadere senza vedere il fondo, completamente sola, per un tempo imprecisato, apparentemente infinito, in un buio spaventoso, senza appigli né riferimenti, e poi sul fondo nulla è stato più come prima: tutto è stato da scoprire e comprendere di nuovo.

Che parole diresti ai tuoi angeli, ora?

Questa è un’ottima domanda perché mi dà l’occasione di raccontare degli angeli…

Alfonso Maria di Nola, ne “La nera signora”, scrive di come sia scaturita la credenza che la morte del figlio significhi la sua trasformazione in angelo e la sua assunzione diretta in cielo. Pare che ciò sia dipeso dalla tradizione ecclesiastica che ha posto una sostanziale differenza fra bambini morti prima o dopo il battesimo, colpevolizzando profondamente i non battezzati. Oggi non facciamo più tale distinzione, tuttavia un tempo gravava pesantemente sulle madri e le famiglie, al punto da generare il bisogno di trovare espedienti con cui gestire la pena. Erano diverse le usanze locali sul nostro territorio. Una delle consuetudini era ritenere questi figli trasformati in angeli, saliti direttamente in cielo e in attesa che i genitori si ricongiungessero a loro. Addirittura questa credenza evitava di sentirsi in lutto: che i figli fossero diventati angeli era motivo di gioia e celebrazione.

Per alcuni è consolatorio pensare ai propri figli come ad angeli. Per altri è verosimile. Per me non è uno né l’alto. Le mie figlie sono semplicemente morte e non so se si siano trasformate in altro: la mia piccola umanità non mi consente di varcare questa soglia acquisendo certezze. Probabilmente quando morirò mi si chiarirà tutto. Se le mie figlie oggi fossero qui, io non sarei questa me… non starei rispondendo a queste domande e non mi occuperei di lutto perinatale. In ogni caso non potrei averle entrambe: la seconda non sarebbe mai arrivata se la prima fosse nata viva. Probabilmente non potrei abbracciare nemmeno l’ultimo dei miei figli. Se le cose fossero andate diversamente, avrei tutta un’altra vita e non avrei conosciuto un paio dei miei figli. Le cose sono andate così e le prendo per come sono andate, senza altri pensieri. Qualche volta mi capita di dedicare un pensiero alle figlie che non ho mai abbracciato: «Grazie.» Perché anche grazie a loro sono diventata mamma di ogni figlio che ho desiderato.

Ringrazio Erika, per questo viaggio “nel dentro”, nel dolore e in più vite che si condensano in una sola: e forse è proprio questo il vero motivo per cui ci si deve continuare a raccontare, perché anche il dolore fa parte della vita, e quando anche dal dolore si raccolgono fiori e frutti preziosi, la vita diventa più dolce. Malinconica, forse, ma sempre bellissima.