Ventidue racconti scritti da un autore, Francesco Frigione, e dal suo eteronimo Ugo Derantolis, introdotti da Franco Saltafuosso.
Un modo di scrivere e creare, basato sul gioco e sull’emotività, sull’esperienza e l’immaginazione. Protagonista è la letteratura onirica insita nella natura umana: sognava l’uomo di Neanderthal, e sognerà, vogliamo sperare, l’uomo che vivrà. Tale concezione nel mondo greco arcaico è sorprendente se si pensa che il sogno non è solo ciò che “incombe” sul dormiente durante la notte, ma è anche una sorta di catarsi, di esorcismo di paure collettive. Storie sospese che vogliono provocare il lettore divertire con un plurilinguismo che anima i vari racconti. Nel contempo la trama rimanda a significati nascosti, alla riflessione e alla scoperta di ognuno di noi.
Un mondo ricco di ipersensibilità immaginativa e di un fluire perpetuo di storie che sono indispensabili per la nostra esistenza.
Il lettore si abitua al mistero delle ragioni profonde e invisibili già dai titoli: geniali, accattivanti, irragionevoli (La merda puzza, Indagine di un cittadino al di sotto di ogni sospetto).
L’autore approfondirà le tematiche trattate in una presentazione mercoledì 3 giugno, alle ore 18:30, in diretta Facebook sulla pagina GM Press.
Durante l’evento sarà presentato il laboratorio creativo online “Scrittura dal sogno”, che ha l’obiettivo di avvicinare i partecipanti al mondo misterioso dell’immaginazione profonda e del sogno attraverso la teoria psicologica, alcuni stimoli artistici ed esercizi pratici di immaginazione, espressione e scrittura.
Abbiamo intervistato lo psicologo e psicodrammatista analitico, autore (con Ugo Derantolis) del libro di racconti fantastici “Le ragioni nascoste”.
Dove ha trovato l’ispirazione per il suo libro?
«L’ispirazione dei racconti è variabile. Nasce dalla risonanza che guadagnano nel mio intimo piccoli e grandi episodi dell’esistenza: molto mi stimolano gli smacchi, le speranze disattese, gli errori, quelle che sembrano le deviazioni dalla norma, insomma. In effetti, credo che a ispirarmi sia più di tutto la banalità del mondo cosiddetto “normale”, perché la trovo infinitamente cieca e brutale (parafrasando Hannah Arendt, lo definirei “Il male della banalità”). È quando la banalità prende piede con troppa risolutezza nella mia vita che mi sento spinto a cogliere il risvolto nascosto delle apparenze, a metterne in evidenza il versante profondo, forse insondabile e certamente spiazzante. Io lo faccio senza sussiego, spero, ma con una certa serietà, mentre Ugo (Derantolis) nei suoi racconti, adopera l’ironia, l’esagerazione e la surrealtà.
In buona sostanza, direi che la mia ispirazione sorge in risposta a una realtà che potrebbe aggredirmi e strangolarmi, con la sua univocità e piattezza, oppure essere troppo complessa e poderosa per la mia anima. Scrivere mi sembra, infatti, che soddisfi due tendenze opposte: da un lato, infonde vigore e concretezza ai sogni e alle fantasie, che spiegano e rivoltano a modo loro la realtà apparente; dall’altro, smorza la spettralità eccessiva, invadente e pervicace, dei fantasmi che turbano l’anima.»
Quali sono le fonti di ispirazione di cui si serve quando scrive? Parte da esperienze reali, autobiografiche o dalla sua immaginazione? E qual è il rapporto tra la sua scrittura e il sogno?
«A dirle il vero, io non so distinguere dove finisca l’immaginazione e dove inizi la realtà. Da questo punto di vista, potrei essere considerato io stesso un personaggio letterario. E non affermo ciò soltanto nel senso donchisciottesco di riconoscermi nella battaglia inane contro un mondo assurdo e sgradito (che pure condivido, al fondo), ma proprio perché la mia esperienza di vita e professionale conferma continuamente le celebri asserzioni di Miguel de Unamuno, che “la vita è sogno”, e di Shakespeare, che “Siamo fatti della stessa materia dei sogni”. La realtà – e lo rammentava benissimo Julio Cortázar – appena la guardi con più attenzione è piena di crepe, che si rivelano insondabili abissi. È l’abisso, in effetti, che guarda noi, che ci illudiamo di osservarlo, come asseriva Nietzsche. In definitiva, io percepisco la realtà che la mia psiche filtra: ogni cosa che incontro nella realtà è in relazione con i desideri e le paure più escluse dalla mia coscienza e, soprattutto, rappresenta l’incarnarsi di un destino personale, che tocca a me decifrare. Quest’operazione continua non riguarda esclusivamente i fatti privati, ma anche le vicende degli altri e i grandi processi dell’esistenza. Tutto, in definitiva, diventa il frutto di un’equazione personale, soggettiva, trascinata dalle correnti profonde dell’anima. Queste gettano un ponte tra la mia soggettività e la realtà intima e segreta del mondo. Insomma la realtà esiste e, allo stesso tempo, non esiste mai in termini assoluti: lascia sempre un margine di manovra alla libertà di descriverla e trasformarla immaginificamente. Si tratta di una libertà che tocca a ciascuno di noi conquistare e riconquistare, volta per volta, giorno per giorno e, nel caso della scrittura, rigo per rigo. La scrittura, la narrazione e gli eventi traumatici della realtà stanno, in effetti, in necessaria connessione. Può esistere un trauma che mozza la parola, ma non può esistere una parola, un racconto, un’illustrazione dotata di senso, che non derivi da un trauma sperimentato o incombente.
Per non sfuggire con astrazioni alla sua precisa domanda, le rispondo: le vicende autobiografiche contano nei miei racconti, ma anche quelle non autobiografiche, poiché anch’esse diventano, in questo processo di appropriazione psichica, parte della mia libertà personale e del mio destino. Allo stesso tempo, scrivere e pubblicare qualcosa significa anche far trapelare i miei sogni, suscitati dai sogni che guidano le azioni degli altri, in un grande flusso comune e, pur in minima parte e con scarso valore, in quel grande sogno universale che rende accettabile – e talvolta persino bella – la vita.
Una vita senza sogno non esiste: appartiene già alla morte. Il sangue del capro nero che Ulisse versa in una fossa dell’Ade, per evocare gli spettri dei morti e farli parlare, non è altro che l’umore della sua immaginazione, il distillato del suo desiderio di ritorno. In parole povere, è la qualità “paziente” della sua anima, che Omero sempre ci ricorda, a permettergli di raccogliere le voci perdute nell’oltretomba. In quanto scrittori, tutti siamo un po’ Ulisse, o Enea, o Gilgamesh.»
Oltre a scrivere, lei è uno psicologo analista: come riesce a far convivere queste sue due anime?
«Come psicologo, io lavoro sempre nel luogo d’incontro tra la mia immaginazione e quella dei pazienti. Freud chiamò “attenzione fluttuante”, questa disposizione simile a un lieve stato ipnotico e alla rêverie, ma io preferisco definirla “distrazione liberante”, un modo per divincolarsi dalla morsa assolutistica delle fantasie che dominano la mente e dettano il comportamento, un escamotage per sottrarsi alla violenza paralizzante dei traumi psichici, che incanalano i pazienti verso una realtà vuota e ripetitiva, mai fluida e sorprendente. Nello spazio psichico dell’analisi giocano le fantasie e le sensazioni più disparate, che danno luogo a ciò che, nel gergo, è chiamato “campo transferale”: una dimensione di affettività molto potente e di difficile definizione, grazie alla consapevolezza della quale l’analista cerca di contribuire al percorso di cura del paziente.
La differenza tra la professione di analista e quella di scrittore sta nel fatto che nella prima io mi pongo al servizio dell’immaginazione degli altri, accompagnandola e facendole largo nella coscienza, mettendomi in suo ascolto, finché questa sensibilità non diventa un’attitudine consolidata negli stessi pazienti. Ma di questo lavoro, al di fuori della stanza di terapia, nessuno ha minimamente contentezza, nessuno può esibirne testimonianza e prove. La sua simbolica è interna, intima, personale, privata.
Nella scrittura, invece, sono io solo a suscitare il mio teatro e a farmene spettatore e drammaturgo. Dal momento in cui li esorto a raggiungermi e li accolgo, i personaggi e le cose che stanno nell’inconscio vengono a prendermi, tormentandomi e deliziandomi. Lo stile con cui ne narro le situazioni e le gesta è il mio personale e devo dar conto solo a me stesso dei risultati ottenuti, senza badare al giudizio e ai bisogni di alcuno. E per quanto riguarda gli esiti di questo teatro, poi, essi si materializzano nelle pagine di un libro, divenendo condivisibili e comunicabili, sicché qualunque sconosciuto, in un luogo e momento che prescindono dalla mia presenza, può leggerli o cestinarli a suo piacimento.»
Quali scrittori hanno influenzato la sua scrittura?
«I grandi della letteratura fantastica, innanzitutto, e non perché io osi accostarmi a loro, ma perché l’influsso delle loro opere, immensamente taumaturgiche, mi ha infuso il coraggio di scrivere di vicende tratte dai miei sogni, di ricamare storie ai margini della Storia e di concedermi dilettevoli eversioni della realtà. Ovviamente, penso ad Edgar Allan Poe, a Franz Kafka, ad Howard Phillips Lovecraft, a Fritz Leiber, a Italo Calvino, a Dino Buzzati, a Umberto Eco, a Julio Cortázar, che citavo già prima, e più di tutti a Jorge Luis Borges, che ebbi l’incredibile privilegio di conoscere, sia pur di sfuggita, a Buenos Aires, quando ero molto giovane. Tra i contemporanei, nutro un’ammirazione profonda verso lo spagnolo Enrique Vila-Matas: considero il suo libro “Esploratori dell’abisso”, in particolare, un capolavoro assoluto.
Per quanto concerne invece Ugo (Derantolis), mio buon amico e coautore, ritengo che oltre a condividere una sincera passione per lo stesso pantheon succitato, il suo amore per la vena umoristica di Jerome Klapka Jerome, l’indimenticabile penna a cui si devono classici come “Tre uomini in barca” e “Tre uomini a zonzo”, lo abbia sottilmente influenzato nei racconti in cui narra le gesta del maestro di filosofia “Lallo De Bonis”.»
Secondo lei, quali “ragioni” “nasconde” il libro?
«Vorrei che fossero i lettori a scovarle, semmai ve no sono. Solo loro potrebbero additarmele con cognizione di causa. Per me, scrivere “Le ragioni nascoste” ha rappresentato un modo di pregare il dio Hermes – a cui la sua testata è giustamente dedicata – affinché mi aiutasse ad ingannare finalmente la realtà, senza farmi a mia volta ingannare dalla sua furia di Circe solo all’apparenza benevola, ed è stata l’occasione per impetrargli la grazia di trasformare la materia densa e grezza dei miei incubi in qualcosa che, con le ali dei suoi calzari, volasse via, lontano da me.»