Cesare Pavese

Scopriamo la Torino di Cesare Pavese

Ma Torino è il più bello di tutti i paesi”, era solito affermare Cesare Pavese quando gli veniva chiesto di descrivere la città che ha calorosamente accolto e abbracciato la sua passione letteraria. Proprio a Torino, infatti, è divampata – come una fiamma viva – la sua arte, che lo ha reso uno degli scrittori più rilevanti del capoluogo piemontese. Legato visceralmente al suo Piemonte e alle Langhe, Torino ha attraversato gran parte della sua esperienza personale e letteraria, facendo da sfondo ai momenti salienti della sua esistenza, fino all’ultimo dei suoi giorni.

Camminare sotto i portici di Piazza Vittorio Veneto – magari respirando la frizzante brezza autunnale – fino a giungere a Piazza Castello e al cuore pulsante del capoluogo piemontese, fa comprendere perché Pavese – e tanti altri insieme a lui – le abbiano giurato amore eterno. Non è poi tanto difficile da credere: Torino, infatti, è davvero un gioiellino. Caffè letterari, librerie storiche, punti nevralgici della città: sono tanti i posti che hanno fatto da sfondo alle vicende dello scrittore italiano che forse, più di tutti, si è saputo nutrire dei perché esistenziali e dei dubbi dell’umanità.

Chi era Cesare Pavese?

Lo scrittore piemontese nacque il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino in provincia di Cuneo. La sua non fu un’infanzia spensierata: il padre, infatti, morì quando Pavese aveva appena cinque anni, mentre una sorella e due fratelli, nati prima di lui, erano morti prematuramente. A tal proposito, qualcuno ha scritto: “c’erano già tutti i motivi – familiari e affettivi – per far crescere precocemente il piccolo Cesare […] per una preistoria umana e letteraria che avrebbe accompagnato e segnato la vita dello scrittore”. La madre, rimasta vedova, dovette allevare i figli da sola, impartendo loro una rigida educazione rigorosa, che accentuò il carattere già riservato di Pavese.

Frequentò la scuola elementare nel suo paese natale, per trasferirsi poi nella località di Reaglie – sulle colline torinesi – insieme alla madre. Per tutti gli anni della scuola e fino al 1930 – anno della morte della donna – abitò con lei in Via Ponza 3 a Torino.

La Torino di Cesare Pavese

Fonte foto: Wikipedia.org

Il Liceo Massimo D’Azeglio

Dopo aver frequentato il ginnasio inferiore presso l’Istituto Sociale dei Gesuiti, nel 1921 si iscrisse al Liceo Massimo D’Azeglio, divenendo un alunno dello scrittore, docente e politico antifascista italiano Augusto Monti; fu proprio quest’ultimo, dopo aver appurato le capacità di un ristretto gruppetto di alunni, a dar vita a una cerchia di studenti del liceo, capitanata da Leone Ginzburg. Proprio negli anni del liceo, Pavese iniziò a frequentare la Biblioteca Civica e a scrivere i suoi primi componimenti, grazie anche all’amicizia con il compagno Mario Sturani – ceramista e pittore italiano – durata tutta la vita.

Nel 1926 conseguì la maturità liceale, e proprio in questi anni fece la conoscenza di alcune personalità di spicco della letteratura antifascista dell’epoca; fra tutti, si rammentano in particolare Leone Ginzburg, Massimo Mila e Giulio Einaudi.

La casa editrice Einaudi

Nel 1934, Pavese si propose come collaboratore presso l’Einaudi, che era stata fondata l’anno prima dall’amico Giulio, studente del Liceo Massimo D’Azeglio e torinese, nonché figlio di Luigi Einaudi. I suoi primi incarichi furono quelli di dirigere la rivista La cultura e curare la sezione di etnologia e poi, dagli anni Quaranta, quando la casa editrice era attiva in varie città italiane, Pavese assunse la redazione romana e torinese, di cui ebbe le redini fino al 1950, anno in cui sopraggiunse la morte. Quella di Pavese, a differenza di altri collaboratori della casa editrice che ebbero una partecipazione meno attiva, fu una collaborazione intima, vissuta nelle più piccole esperienze della quotidianità. Non è un caso che alla casa editrice Einaudi venga subito associato il suo nome, insieme a quelli di Italo Calvino ed Elio Vittorini, con i quali ebbe – rispettivamente  un rapporto di stima-competizione.

Le opere scritte a Torino

Il capoluogo piemontese gli diede l’ispirazione per alcune delle sue opere più celebri: a Torino, infatti, scrisse La luna e i falò, La casa in collina, Il diavolo sulle colline e vinse il Premio Strega con La bella estate nel 1950. Quest’ultima opera, inoltre, è proprio ambientata in una Torino crepuscolare, che funge da sfondo alla dolorosa maturazione di un’ingenua adolescente, Ginia.

La Torino di Cesare Pavese

Fonte foto: einaudi.it

I caffè letterari

Dal 1930 al 1950, insieme alla sorella Maria e al cognato, Cesare Pavese visse in un appartamento sito in via Alfonso Lamarmora 35, da cui spesso si affacciava per esaminare l’ambiente circostante, trovandolo assolutamente stimolante: “La città semivuota mi pareva deserta. Il gioco dell’ombra e del sole l’animava tanto, ch’era bello fermarsi e guardare da una finestra sul cielo e su un ciottolato. Sapere che oltre alla luce e all’ombra fresca c’era qualcosa che mi stava a cuore e rinasceva col sole e affrettava la notte, dava un senso a ogni incontro che avvenisse su quelle strade. C’erano gli alberi che bevevano il sole, c’erano i gridi delle donne, c’era un grande silenzio. Uscivo dalla stanza presentendo altri sentori e la frescura della sera. Potevo guardare e amare ogni cosa”.

Nel tempo libero, quando non girava per la città in cerca di ispirazione, frequentava regolarmente il Caffè letterario Platti e il Caffè Elena, sito in Piazza Vittorio Veneto 5, dove sostava e scriveva senza indugio. Oggi è possibile sedere ai tavolini di questi bar, magari proprio dove si accomodava lo scrittore, apprezzando i medesimi arredamenti presenti all’epoca e respirando la stessa aria intellettuale che li ha sempre contraddistinti.

Il suicidio all’Hotel Roma

Il 27 agosto 1950, nella stanza 346 dell’Hotel Roma, Pavese si tolse la vita. La stanza conserva ancora oggi l’arredamento dell’epoca, ed è possibile soggiornarvi. Dieci giorni prima del gesto, aveva lasciato qualche breve annotazione nel suo diario, pubblicato postumo con il titolo Il mestiere di vivere. Diario 1935-50, in cui scrisse: “Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò”. In un biglietto rinvenuto in camera il giorno del suicidio, invece, scrisse “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.

Ripercorrere la storia di Torino e di Pavese, dunque, vuol dire narrare una storia umana, ancor prima che letteraria. Ma, soprattutto, significa parlare di un amore che si sviluppò in un paese che stava inesorabilmente cambiando, gettando le basi per quanto, ancora oggi per fortuna, possiamo osservare e ricordare.