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Si dice?
Si dice quando si vuole fare una fantozzata, certo.
Ma qual è la regola precisa che impedisce a certe parole di avere un plurale come tutte le altre? Che si sentiranno anche discriminate, poverine. Certo, non quanto chiunque mi venga a parlare di ossi e bracci (ma soprattutto dii); ma di certo non si percepiscono come tutte le altre.
Perché non le sono!
Cos'è che ha visto lei?..
Si chiamano plurali irregolari. Eccola, la regola, tie’! Cioè, non è che queste parole se ne vanno in giro a pluralizzarsi ad catzum come se fossero tante locuzioni ubriache.
È proprio che nella lingua italiana sono presenti, regolarmente legittimate, alcune parole che non seguono le normali regole di costruzione del plurale. E nel farlo, addirittura, appaiono essere persino un po’ confuse: cambiano genere, sovrabbondano, oppure sono semplicemente impredicibili.
Ma quali sono?
Eh, quali sono. Sono parecchie. difficile farne un numero preciso. Oltre alla succitata città, possiamo citare ad esempio bue, uomo, ampio, tempio, tempia, mio, tuo, suo, i sovrabbondanti bello (bei, belli, begli) e quello (che segue le stesse regole del precedente). E centinaio, miglio, paio, riso, carcere, uovo, ciglio, ginocchio, labbro, lenzuolo, corno, muro, frutto…
Con qualche eccezione in uso…
La sovrabbondanza del plurale di braccio (bracci, braccia) ha una spiegazione d’uso nell’italiano corrente. Se intendiamo le nostre braccia, allora andiamo verso il femminile. Ma se vogliamo parlare di tutti i nostri bracci destri, oppure di un gruppo di bracci meccanici, ecco che si ricade sul maschile. Lo stesso dicasi per le dita e tutti i diti mignoli. Le mani, le ali, le armi…
Da notare che i semplici termini piazza d’arme o allarme (all’arme!) ci dimostrano che in passato alcune di queste parole avevano delle pluralizzazioni regolari. E anche parlando delle parti di un edificio parliamo delle ale, non certo delle ali.
Ulteriori eccezioni, unicamente fonetiche, possono far parte di espressioni dialettali.
…e qualcuna in disuso
Dii, non è sbagliato. Sorpresi, eh? è solo (ampiamente) in disuso. La forma pertanto in uso attualmente è la indeducibile dèi (che sfruttando un’altra eccezione della regola pretende l’articolo determinativo irregolare gli e non i come invece dovrebbe). Scritto con l’accento grave per differenziarlo dalla preposizione articolata dei, che per altro si pronuncia déi.
È da sottolineare comunque che l’accento su dèi è pressoché ormai in disuso anch’esso, con la tendenza ad usarlo solo quando la frase non riesca a rendere autonomamente esplicito l’oggetto del discutere. Questo accade perché anche sull’accento acuto e grave ci sarebbe da parlare un bel po’, dato che è uno degli errori più commessi nel parlato odierno. Ma ci sarà occasione. Tanto non mi scappate.
Per la cronaca, è in Lombardia.
Laureato in Belle Arti, grafico qualificato specializzato in DTP e impaginazione editoriale; illustratore, pubblicitario, esperto di stampa, editoria, storia dell’arte, storia del cinema, storia del fumetto e di arti multimediali, e libero formatore. Scrittore e autore di fumetti, editor, redattore web dal 2001, ha collaborato e pubblicato con Lo spazio Bianco, L’Insonne, Ayaaak!, Zapping e svariate testate locali.