“Fare attenzione ai regali e a chi li offre e di fare attenzione anche a chi è troppo felice di riceverli.”
Un monito che chiude una vecchia favola, “della Bambina con il Cappellino Rosa”, ma che si riflette nel film come la morale che accompagnerà il viaggio dei fratellini nel bosco, e al contempo, nella nostra società.
“Gretel e Hansel” è uscito in America a gennaio, ma a causa del Covid, arriva in Italia solo al tramontare dell’estate, diventando insieme a Tenet di Nolan, un faro di speranza per la riapertura delle sale e dell’intera industria del settore. Questa versione rilegge in chiave horror la favola dei fratelli Grimm, già di per se un materiale abbastanza inquietante, concepito dal duo di cantastorie che trasformava gli incubi e le credenze popolari in intrattenimento per bambini, mostrati come impostori da Terry Gilliam qualche hanno fa.
Il regista Oz Perkins, figlio di Anthony Perkins icona del cinema thriller per aver incarnato le personalità multiple di Norman Bates in “Psycho” del maestro Hitchcock, fa parte di un gruppo di nuovi autori come Robert Eggers e Ari Aster, rispettivamente registi di The Witch e Windsommar, che stanno tentando di definire il dna dell’horror moderno attraverso un’estetica ricercata, che affascina e sconvolge. Moderni cantastorie, che come i Grimm, divulgano atmosfere cupe per dar luce alla morale del mondo contemporaneo.
Lo sviluppo della trama rimane sulla strada narrativa originale, ma il film di Perkins si prende delle libertà creative, riuscendo a plasmare una visione innovativa, cupa, oscura, e già dalle prime immagini, il Male che lega il racconto è tangibile, una sagoma sottile, con il cappello a punta e il mantello, senza volto ma con uno sguardo onnipresente, che ci allunga con “gentilezza” la mano dalle lunga dita annerite per offrire doni che elargiscono Potere, ma anche dolore. Ci si trova di fronte ad un oggetto misterioso, nonostante la storia sia nota e sfruttata.
“Gretel e Hansel” non è un vero horror, non ci sono salti sulla sedia o immagini tanto cruente da coprire gli occhi per gli schizzi di sangue, ma nemmeno una fiaba nel senso letterale. È una visione ricercata, un gioco strutturato al millimetro su una prospettiva pittorica che porta lo sguardo dello spettatore a seguire il passo incerto dei fratellini nei luoghi oscuri, spesso nascosti sotto elementi comuni, rassicuranti, ma insidiosi. Veniamo immersi nell’elaborazione di un incubo, germogliato nella psiche dopo la storia della buona notte, che lascia brividi latenti, che vede ombre immobili in strani aloni e vapori sulfurei, ghigni maligni e ambizioni perverse in sorrisi accoglienti, e un mondo avvolto in un’atmosfera lugubre in cui tutto marcisce, persino i legami famigliari.
Da qui, arriva una strana svolta narrativa; il film sposta il disagio dello spettacolo verso tematiche insite nell’umano. Il peso della responsabilità, il legame materno di Gretel, la vera protagonista, la Sophia Lillis di IT, al fratellino Hansel, che suo malgrado deve tenere stretto a se come la catena di un prigioniero, per proteggerlo dalle strade di un mondo perduto in cui è difficile ritrovare la rotta del proprio destino. Il bisogno di una consapevolezza di sé, necessaria all’evoluzione del proprio “potere” ma che rischia di cedere alle lusinghe del Male.
La Strega, interpretata da un’eccezionale Alice Krige, i simboli esoterici, i sussurri del bosco, le luci d’ispirazione “Suspiriana”, diventano il prestigio che estendono malesseri interiori, demoni che chiedono sacrifici, materiali o spirituali.
Nel film non varchiamo la porta di una casa di pan di zenzero piena di prelibatezze, che pur ci sono, ma troviamo una casetta di legno dalla tonalità scura, dalla forma triangolare, accesso diretto ad un animo annerito da sogni negati e incubi violenti.
Il lieto fine è nella possibilità di liberare se stessi da sentimenti tormentati, di tagliare i legame opprimenti e lasciare l’Altro a percorrere la propria strada nel bosco, ovunque essa porti.
La vita è la favola che ci raccontiamo. Il finale dipende da noi. Forse…
Voto: 3/5