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Dire o scrivere soltanto “Buongiorno a tutti!“, ad oggi, potrebbe non bastare più. Questo perché la nostra società si sta evolvendo in modo tale da non escludere più determinati soggetti e determinate categorie di persone. E questo è certamente un bene: l’inclusività non può che essere sinonimo di progresso in qualsiasi società. Tuttavia, la lingua italiana può e potrà mai essere davvero inclusiva?
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Il dibattito sulla questione non è affatto nato negli ultimi anni (o mesi), contrariamente a quanto si possa pensare. Comunque, l’ultimo “ritorno” sull’argomento risale a pochissimo tempo fa, ossia quando si è cominciato a parlare di un linguaggio più inclusivo che non faccia “discriminazioni” tra persone o categorie di esse.
Cosa vuol dire tutto ciò? Attenzione: non si parlerà di complotti iperbolici o di presunte lobby cattive che vogliono trasformarci in automi utilizzando l’arma del politicamente corretto. Né si parlerà di ipotetiche teorie gender da ricollegare ai cosiddetti “gombloddi” delle lobbies sopra citate. Proviamo a fare un passo indietro e a riflettere su cosa voglia dire rendere la lingua italiana più inclusiva.
L’inclusività nel tempo
Se ci pensate bene, la questione può benissimo partire dai mestieri, ossia da tutti i nomi delle varie mansioni che, fino a qualche decennio fa, erano coniugate esclusivamente al maschile. Alcuni esempi: professore, assessore, dottore, sindaco, ministro.
Alcuni di questi nomi destano ancora oggi un po’ di sdegno e qualche perplessità se trasformati al femminile. Infatti, se professore e dottore diventano professoressa e dottoressa senza troppi problemi, termini come sindaco, ministro e alle volte anche assessore incontrano qualche resistenza. Non è raro che qualche persona storca (ancora) il naso quando sente dire la sindaca, la ministra o l’assessora, e dunque parte all’attacco dapprima alludendo a un eventuale errore madornale poiché “la lingua italiana non prevede tali parole“. Poi, però, quando scoprirà che queste ultime non solo sono accettate dalla Crusca, bensì sono presenti in tutti i vocabolari italiani, si aggrapperà all’opinione personale, affermando che “sì, beh, è giusto… però non si possono sentire!“.
E negli ultimi anni?
Di recente, il dibattito ha riguardato un’inclusività che andasse oltre i classici maschile e femminile. Si è parlato, infatti, di provare ad introdurre il genere neutro nella lingua italiana, o comunque di utilizzare elementi quali l’asterisco (*) e lo schwa (ə) al posto del classico maschile plurale. Questo per indicare tutti quei gruppi composti da una moltitudine di persone, indipendentemente dal loro sesso biologico di appartenenza, dalla loro identità di genere e così via. Per quanto potesse suonare strano, o forse un po’ complicato dal momento in cui la lingua italiana non prevede termini neutri né elementi fonetici come lo schwa. Tuttavia, almeno quest’ultimo, tra l’altro discusso anche dalla Crusca, poteva certamente costituire un piccolo passo in avanti verso l’inclusività totale nel nostro linguaggio.
Per quanto riguarda la definizione di “schwa“, secondo l’Enciclopedia Treccani si tratta di:
“Un suono vocalico neutro, non arrotondato, senza accento o tono, di scarsa sonorità; spesso, ma non necessariamente, una vocale media-centrale.”
Per riprendere l’esempio iniziale, il “Buongiorno a tutti!” diventerebbe un “Buongiorno a tutt’!” nel parlato.
Nonostante ciò, “qualcosa è andato storto“. Nel senso che, sebbene sia stato incentivato l’uso dello schwa in numerosi contesti sociali (molti dei quali riguardano l’universo femminista e gli ambienti LGBT+), quest’ultimo è stato recentemente rifiutato dalla Crusca. E questo insieme all’asterisco sopra citato, ma solo in alcune situazioni. Infatti, come riportato nella discussione ufficiale:
“L’asterisco non è invece utilizzabile, a nostro parere, in testi di legge, avvisi o comunicazioni pubbliche, dove potrebbe causare sconcerto e incomprensione in molte fasce di utenti, né, tanto meno, in testi che prevedono una lettura ad alta voce.“
Il motivo è legato all’impossibilità di leggere l’asterisco in ambito fonetico. Altrimenti, può funzionare come sostituto della classica sbarra che troviamo nei documenti (il/la signor/a). Le motivazioni che hanno portato al rifiuto dello schwa, invece, stanno nel fatto che:
“(…) il segno per rappresentare lo schwa è proprio, ma non è usato come grafema in lingue che pure, diversamente dall’italiano, hanno lo schwa all’interno del loro sistema fonologico“.
Per quanto riguarda il parlato, la Crusca afferma che:
“Non esistendo lo schwa nel repertorio dell’italiano standard, non vediamo alcun motivo per introdurlo.“.
È possibile, quindi, rendere la lingua italiana più inclusiva?
Nonostante quella che può sembrare un’amara decisione da parte della Crusca, a mio parere è possibile ed assai fattibile rendere più inclusiva la lingua italiana.
Come? Se non si possono utilizzare gli asterischi (quantomeno nel parlato, perché nello scritto non sono contemplati solo in alcuni contesti) né lo schwa in nessuna situazione, perché non provare a trasformare il “Buongiorno a tutti!” in “Buongiorno a tutti e a tutte!”?
Questo non potrebbe risolvere il problema dell’inclusività in toto (bisogna contare anche chi si identifica come non binary, ossia chi non riconosce di appartenere al genere maschile né a quello femminile), ma cominciare ad affiancare il femminile plurale al maschile plurale può rappresentare un decisivo passo in avanti per migliorare il nostro linguaggio.
Classe 1996. Sono appassionata di molte cose, tra cui la fotografia.
Nasco in un borgo del Centro Italia e quando ne ho la possibilità faccio dei piccoli viaggi (o gite fuori porta, come preferite) nei luoghi più disparati della mia terra, ossia proprio l’Italia Centrale.
Quella di Hermesmagazine è la mia prima esperienza in assoluto da pubblicista; dietro le quinte ho curato, insieme ad altre persone, i testi di alcuni articoli per il sito leviedelcinema.it (Rassegna del film restaurato che si tiene non molto lontano da casa mia). Nel tempo libero gestisco una piattaforma personale in cui ho catalogato i miei scatti in giro per il Centro Italia (e non solo) e in cui scrivo qualcosa riguardo i miei spostamenti.