Yuleisy Cruz Lezcano Di un’altra voce sarà la paura

Yuleisy Cruz Lezcano: “Di un’altra voce sarà la paura”.

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Con Di un’altra voce sarà la paura, Yuleisy Cruz Lezcano si avvicina al tema doloroso e purtroppo attualissimo della violenza sulle donne.

Violenza sulle donne: i dati

Secondo l’Istat, nel primo semestre del 2024 in Italia sono stati registrati 49 omicidi di donne, per lo più uccise in contesti familiari o da partner/ex partner. I maltrattamenti contro familiari e conviventi stanno, quindi, aumentando. Anche le segnalazioni di violenza da parte di autori noti sono cresciute, riflettendo una maggiore consapevolezza e azione di contrasto. Le chiamate al numero 1522, destinato a vittime di violenza e stalking, mostrano un incremento significativo, evidenziando l’alto bisogno di protezione e soprattutto la maggiore consapevolezza di chi decide di denunciare. Come è evidente da questi dati, la violenza di genere in Italia rimane un problema grave. Parlarne è un dovere civile.

Di un’altra voce sarà la paura

Yuleisy Cruz Lezcano

La raccolta poetica squarcia il velo su un silenzio ancora troppo opprimente, conducendoci in un labirinto buio, dove per alcune vittime non esiste via di fuga. Attraverso i versi, l’autrice si fa portavoce di molteplici storie di donne senza voce, di urla soffocate. Ogni parola sembra rivolgersi direttamente a noi, come se fosse frutto di esperienze vissute in prima persona, radicate in una serie di traumi accumulati nel corso della vita, fino a raggiungere l’ancestrale e nebuloso terreno dell’infanzia della poetessa.

Uno sguardo dolente e pieno di compassione, ma anche di rabbia

Yuleisy Cruz Lezcano ci racconta di corpi e anime costrette a fare i conti con una totale spoliazione di sé, separate da ogni legame con il mondo, relegate ai margini della vita, abbandonate dagli déi e dagli uomini. Queste donne sono state private della possibilità di un cambiamento, di un sogno di riscatto, quello stesso sogno che ci sostiene nei momenti più terribili della nostra esistenza.

L’intervista

Il tema principale attorno a cui ruota la sua silloge è la violenza. Qual è stata l’urgenza che l’ha spinta a scriverne?

L’urgenza deriva dal fatto che questo argomento è una piaga sociale. Lavorando nel consultorio famigliare di Bologna e ascoltando tante storie di donne che facevano richiesta di abortire, dopo la violenza subita, mi sono resa conto che questo problema non è solo problema sociale, ma è anche un problema di salute pubblica. A proposito di questa affermazione ci sono diversi documenti dell’OMS, che nel 1996, hanno documentato e parlato del fenomeno come un grave problema di salute pubblica. Sicuramente sono molte le donne che denunciano la violenza subita, ma sono molte di più quelle che non ne parlano. Quindi parlare di statistica per questo fenomeno non è giusto, perché è sempre una sottostima della situazione reale. Il fenomeno ha una prevalenza enorme, perché almeno una donna su tre subisce violenza di qualche genere lungo la propria vita. Le cifre sono pandemiche e la problematica ha un impatto sulla salute fisica, sessuale e psicologica delle donne. Pertanto, a seguito di una violenza la vittima necessita di un servizio integrato di psicologia, medico e sociale. Quindi a seguito di questa brutta deriva, dell’esasperazione dei fatti di cronaca e vista la mia storia personale, ho sentito la responsabilità di parlare del fenomeno. E come l’ho fatto? Attraverso la poesia! La poesia è uno strumento che per me sta diventando, durante le varie presentazioni, non solo un momento letterario ma anche un momento educativo, per indicare alle donne vittime di violenza le strutture che possono accoglierle, per passare il messaggio che ci sono posti sicuri dove potere parlare di quello che a loro è accaduto. Ci sono punti di accoglienza con professionisti preparati, dove è possibile affidarsi a un’equipe integrata composta da professionisti della salute, psicologi e servizi sociali, quindi un’equipe multidisciplinare che tiene in conto non solo della storia di violenza ma del contorno, degli affetti delle donne e delle persone vulnerabili che le donne hanno a loro carico. Il libro l’ho concepito come una piccola traiettoria per seminare coscienza, consapevolezza sul fenomeno e conoscenze. Il mio libro si focalizza su storie vere e per diffondere questo libro ho trovato la collaborazione di moltissimi giornalisti, istituzioni, associazioni e letterati del panorama italiano, pertanto il libro ora è diventato per me uno strumento collaudato che accompagna una sorta di mission per parlare della violenza di genere e creare un dialogo costruttivo con i lettori.

In particolare, l’opera si concentra sulla violenza di genere. Qual è il rischio quando si parla di un tema ormai – purtroppo – abusato e banalizzato dai media?

È vero, i media hanno il malefico potere spesso di abusare e banalizzare i fatti di cronaca e anche i fatti di violenza subiscono questo destino.

Prima di tutto penso che mandando in onda la vita privata delle donne vittime di violenza, il primo rischio è che queste vengono nuovamente vittimizzate pur di fare audience televisiva. È necessario sradicare la violenza mediatica. Specificamente, può definirsi come la pubblicazione o la diffusione di messaggi, immagini e opinioni stereotipate, che usano mezzi di comunicazione collettivi per riprodurre la dominazione, la mancanza di uguaglianza, la discriminazione nelle relazioni sociali, normalizzando la subordinazione delle donne nella società. La cronaca non soppesa a volte le parole, bisogna pensare alla potenza del linguaggio e al messaggio che si trasmette, spesso si mette sotto accusa cosa stava facendo e dove stava andando la donna, creando una sorta di telenovela a puntate di temi familiari della vittima, che non hanno nulla a che vedere con il delitto sul quale si sta investigando. In questo tipo di azioni le vittime vengono inserite in due tipi di gabbia “la buona” e “la cattiva” fornendo giudizi, che generano uno tsunami sull’opinione pubblica. Questo tipo di situazione può veicolare il pensiero che la vittima in qualche modo si è esposta a quello che le è accaduto.

Il secondo grande rischio è che le persone venendo a conoscenza di nuovi fatti di violenza essendo martellate in modo banale dai media, inizino ad assuefarsi a tali notizie perdendo quella empatia verso le donne che hanno già tanto sofferto. Tramite le mie presentazioni cerco, come ho già detto, di seminare coscienza e consapevolezza sul fenomeno, volendo evitare questa banalizzazione.

Il libro racconta soprattutto storie di violenza fisica. È una scelta mirata?

Sappiamo che la violenza fisica, lo stupro, il femminicidio è spesso preceduto dalla violenza psicologica, infatti all’interno del libro parlo di questa violenza come sequenza iniziale, ma mi focalizzo sulla violenza fisica perché è quello che in genere arriva ai servizi sanitari, e da anni studio i comportamenti delle donne a seguito dei traumi da stupro. Ho avuto formazione per potere dare un’assistenza adeguata a queste donne. quindi sia professionalmente, sia umanamente mi trovo compromessa con questa problematica. Sicuramente il mio libro non è esaustivo, ma ha il significato di una piccola goccia per continuare a parlare di questo argomento. Sono andata oltre lo standard della mia formazione e mi sono calata con tutta me stessa dentro le parole, per dare un significato visivo a quello che sentono le donne vittime di violenza. La mia sensibilità e la mia conoscenza riguardo al trauma da stupro sono state fondamentali per parlare di violenza di genere all’interno del libro. In esso parlo spesso di fragilità, vulnerabilità, perché per educare bisogna partire dal basso e vorrei che fosse chiaro a tutti che senza diseguaglianza non esisterebbe la violenza di genere. Anche se nel nostro quotidiano non lo percepiamo, questa diseguaglianza di genere è presente, ma spesso diviene invisibile, si normalizza. La relazione di non parità nel nostro intorno fa sì che le relazioni all’interno di una coppia abbiano una comunicazione squilibrata, lui sopra di lei, in modo diseguale. Con il libro sensibilizzo riguardo a questa problematica, che spesso genera un possesso malato, che può in casi estremi degenerare. Poi come detto prima, il libro per me è uno strumento dapprima di sensibilizzazione e successivamente con le mie presentazioni itineranti uno strumento di formazione. Il libro dimostra l’inquietudine, il disprezzo verso i carnefici e l’empatia verso le vittime, con un’angoscia cruda, fatta volutamente visibile. Così si apre il dibattito anche verso la violenza psicologica, la violenza comunicativa che con l’uso dei social è divenuta una violenza mediatica, che ha conseguenze psicologiche importanti. E su questo possiamo aprire un ampio dibattito. Il mio compito non è sanitario, non è di analizzare la realtà assistenziale ma è di sensibilizzazione, attraverso l’arte poetica.

È possibile perdonare chi compie gesti simili? E, soprattutto, è possibile la riabilitazione di determinati soggetti? Crede nelle seconde possibilità?

Noi donne siamo malate di silenzio, la costruzione di silenzi ha reso difficile il cammino perché dobbiamo in primis perdonare noi stesse, dopo una violenza.  Parlarne aiuta a identificare la violenza subita come tale e rielaborare quello che è successo per ripartire con la propria vita. Non credo sia possibile perdonare ma non credo nemmeno che la vittima debba soffrire in eterno, odiare in eterno, sentire rabbia in eterno.  Sicuramente nel ciclo della violenza il perdono è stato poco studiato, ma ogni caso è a sé.

L’atto del perdonare non deve assolutamente giustificare i comportamenti negativi, è un atto volontario, che può essere utile se libera la persona da sentimenti negativi. Non tutti però ne sono capaci e siccome esiste la memoria, non sempre è possibile perdonare. Io per esempio non ne sono capace e non mi sento colpevole o sbagliata per non riuscire a perdonare, ma non per questo mi sento oppressa da sentimenti negativi né dall’ossessione di una possibile vendetta. Si può vivere senza perdonare, mettendo il passato in una scatola chiusa, per non riviverlo continuamente, e poter concentrare i propri sentimenti ed emozioni su altre situazioni. Attenzione, il perdono non è sempre uno strumento terapeutico. Ci si può liberare da esperienze dolorose e riconciliarsi con il presente, dando la colpa di quello che ci è accaduto al carnefice, ma con la consapevolezza che il passato è passato e non c’è più nulla da riparare perché sta in noi stesse la forza per ricomporci, la forza di scegliere un percorso di autostima e non di dissociazione. Chi è in grado davvero di perdonare non deve entrare nel meccanismo della negazione, non deve accettare un nuovo inizio ed esporsi a nuove violenze. Il carnefice spesso sa come manipolare la propria vittima, che molte volte crede che sia il suo comportamento a provocare la violenza subita. Si deduce da queste mie parole che non credo alle seconde opportunità. Per quanto riguarda la riabilitazione è difficile rispondere, perché non tutti gli esseri umani sono uguali e nemmeno tutti i carnefici.

Al di là di questo esistono diversi tipi di perdono in cui le donne che sono state violentate e umiliate dall’uomo, che molti casi è il loro compagno o ex compagno, cercano una riconciliazione, con perdono condizionale alla promessa che non lo farà più, ed esiste un perdonare in cui la vittima si allontana definitivamente dal proprio aggressore, oppure intermedia di perdono condizionale in cui la vittima usa il perdono per poi vendicarsi del carnefice, in modo di sentirsi “superiore” umiliandolo, ma questo ultimo perdono è tra tutti il più pericoloso.

Sicuramente la possibilità di perdono nella violenza che coinvolge l’infanzia è ancora più difficile. In molte delle poesie ho messo in evidenza la mia incapacità di perdonare i carnefici.

Crede, invece, nella vendetta come valore di giustizia?

La vendetta non è mai stata un valore di giustizia, ma una risposta all’aggressione subita, quasi istintiva oppure può costituire per la vittima uno strumento per costruire una nuova realtà. Non credo nella vendetta, ma ci deve essere un accesso alla giustizia con leggi che tutelino e proteggano veramente la vittima. La vendetta è emozione umana, ma spesso se si rielabora questa emozione, rimane solo sotto forma di pensiero. È umano che la vittima voglia occupare una posizione di attacco, non mi sento di giudicarla in merito. Se vogliamo un mondo migliore dove non esista la vendetta, dobbiamo prevenire gli abusi, la violenza ma anche tutelare il diritto delle donne.


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