“Echoes” è la traccia numero sei del sesto album dei Pink Floyd, Meddle, pubblicato il 31 ottobre del 1971. Composta da tutti i membri, sarà posta a fine album, in chiusura.
Questo perché, pur essendo il nucleo essenziale del nuovo progetto, il brano è una lunga suite – una sequenza di brani pensata da suonare in successione – della durata complessiva di 23 minuti e si può considerare come una “concept track”, che racchiude in sé il senso complessivo dell’album e da sola dà inizio e fine ad un turbinoso viaggio emozionale che riempie l’intero lato B del disco.
Sembra davvero un’impresa colossale dover spiegare il senso di un brano così complesso e intriso di significato, soprattutto se non si crea prima un po’ di contesto. Mi sembra doveroso, quindi, fare alcune premesse.
Un periodo sperimentale e innovativo
Nel 1970 i Pink Floyd non avevano un vero progetto da seguire per il loro nuovo lavoro in studio. Dall’abbandono di Syd Barrett nel 1968 non si erano ancora ripresi del tutto e la band stava vivendo una fase di transizione e di intensa sperimentazione. Waters, Gilmour, Wright e Mason erano all’ossessiva ricerca di un nuovo sound che li caratterizzasse, e per raggiungere questo obiettivo provarono diverse strade non proprio fruttuose per la loro carriera.
All’inizio del ‘68 Waters dichiarò che i Pink Floyd stavano progettando dei “concerti pensati come spettacoli circensi”; già nel ’67 avevano, tra l’altro, realizzato un collage di suoni elettronici per Speak, un film dell’artista concettuale John Latham, e pochi mesi dopo fecero lo stesso per il noir The Committee di Peter Sykes.
Nick Mason affermò che furono addirittura contattati per comporre la musica di 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. E sul perché questa epica collaborazione non ebbe mai luogo, Mason asserì: “Sospetto che alla fine non se ne fece nulla non solo perché i Pink Floyd non erano adatti, ma anche perché il compenso sarebbe stato davvero misero”.
Meddle e le”interferenze” con lo spazio
Nel luglio del 1969 i Pink Floyd realizzarono quello che David Gilmour avrebbe poi definito “un classico blues spaziale”: per accompagnare la diretta della BBC per assistere ai primi passi di Neil Armstrong sulla Luna, in Inghilterra la band si esibì dal vivo improvvisando il brano “Moonhead”.
Seguendo questa via incerta fatta di collaborazioni e sperimentazioni, forse in parte fuorvianti, una cosa certa è che la musica dei Pink Floyd ha acquisito e sviluppato quel tratto distintivo della sua “interferenza” – intesa come una profonda connessione – con il mondo e con lo spazio esterni, guadagnandosi una posizione nel panorama artistico-musicale che va al di là di qualsiasi categoria esistente.
È così che dopo un lungo periodo di prove, uno studio minuzioso di suoni e di tecniche, i Pink Floyd giungono a dare un taglio netto con il loro passato. Nasce “Meddle”, un album che fa da ponte tra “Atom Heart Mother” e “The Dark Side of The Moon”, prendendo un po’ dell’art rock avanguardista del primo e anticipando temi e sonorità del secondo e ben più riuscito capolavoro.
Il titolo dell’album, a dire di Gilmour, è nato dall’unione della parola “medal” – una medaglia, forse a voler simboleggiare la vittoria dopo che la band era stata condannata al fallimento – e il termine “interfere”, un’interferenza, appunto, che si configura come una connessione tra l’essere umano e la realtà circostante.
E come avviene questa connessione? La risposta è molto semplice e ci viene data inaspettatamente dall’immagine di copertina dell’album.
Ebbene sì, tutto il senso è racchiuso in quell’immagine all’apparenza criptica e indecifrabile. Chi non si è mai chiesto cosa fosse quella forma strana? Tutte le volte in cui mi sono ritrovata a guardarla mi ha sempre dato l’impressione di un oggetto nei fondali marini, un corallo o qualche creatura che popola gli abissi.
E in effetti i Pink Floyd chiesero allo studio fotografico di immortalare qualcosa sott’acqua – e coscienziosamente rifiutarono il suggerimento esterno di piazzare l’ano di un babbuino in primo piano – scegliendo come soggetto un orecchio umano.
Lo Studio fece quindi la foto ad un orecchio subacqueo, a distanza ravvicinata. Gli intenti sono chiari: abbiamo l’organo adibito all’udito, la cui percezione viene distorta sott’acqua e quindi laggiù i suoni arrivano più deboli, proprio come fossero delle interferenze. Ed è su questa “interfere”, su un gioco di incroci e distorsioni di suoni che l’intero album cresce e si espande .
La foto della cover di "Meddle" girata nel verso giusto.
Il significato di “Echoes”: l’eco di un tempo remoto
Il brano che custodisce in sé l’essenza di “Meddle”, parte dopo il country blues straniante di “Seamus”. Tutto si ferma e c’è un silenzio assoluto. Poi in quel silenzio improvvisamente un…
Ping
Ping
È così che ha inizio Echoes, con una nota acuta (un Si) suonata dall’Hammond di Richard Wright e amplificata con un altoparlante Leslie, che si ripete diverse volte.
Quel suono come un’eco distante sembra arrivarci da lontano e poi pian piano si propaga, come il segnale acuto di un sottomarino o come un rumore misterioso proveniente dallo spazio.
Poi, sullo sfondo degli echi confusi e ovattati, ecco che si fa strada la chitarra di Gilmour. Le note del piano e i dolci accordi suonati in slide avanzano e indugiano per un po’. Ecco poi l’entrata fragorosa della batteria di Mason, che in due battute consecutive introduce il momento della prima strofa.
“…The echo of a distant time comes willowing across the sand
And everything is green and submarine…”
Tutto intorno a noi è come fermo, siamo immersi in una dimensione dove il tempo si è “congelato”, e siamo invitati a riflettere e meditare sull’origine di tutto ciò che ci circonda. Mentre “l’albatro dondola immobile nell’aria”, noi siamo tirati giù nelle profondità delle caverne coralline, dove “L’eco di un tempo lontano giunge salendo attraverso la sabbia”.
“…And no one called us to the land
And no one knows the where’s or why’s…”
L’andamento del testo ci indirizza verso una ricerca, quella della propria dimensione nell’universo. L’uomo – come un sottomarino o un astronauta – si trova da solo in un abisso di incertezze, ed è mosso dal dubbio del sapere cosa fare in questo mondo in cui è stato scaraventato.
L’energica lotta per l’affermazione personale, e quindi per la sopravvivenza, è scandita dall’epico intermezzo musicale, con la chitarra elettrica in climax che fa un giro su se stessa e poi ritorna, più volte, finché non si arriva alla seconda strofa.
“Strangers passing in the street…”
Già dalla prima parte del testo, ma ancor di più nella seconda, possiamo ritrovare quelli che diventeranno i temi della “filosofia pinkfloydiana”, e in particolar modo di “Dark Side”.
Il brano analizza e contempla le cause dell’alienazione, l’assurdità dell’ esistenza, il senso della vita, lo scorrere del tempo.
In particolare, Roger Waters dichiarò che il pezzo rappresenta un inno all’empatia, questa grande potenzialità che gli esseri umani sanno di avere, ma che spesso non riescono ad utilizzare per via degli interessi personali, per il denaro o per il successo.
“In quanto esseri umani, dovremmo imparare a entrare ancor più in sintonia con gli altri”
questo il sentimento di Waters che ben si esplica nei versi della seconda strofa:
“Strangers passing in the street
By chance two separate glances meet
And I am you and what I see is me”
Due persone estranee si incrociano per caso lungo la strada – non so voi ma io mi sono sempre immaginata che la scena avvenisse su un ponte, melanconicamente alla luce di un tramonto dai toni porpora e arancio – e riflettendosi l’uno negli occhi dell’altro si rendono conto inaspettatamente di essere simili.
“E io sono te e ciò che vedo sono io”, recita la canzone.
Il riconoscimento nello stato d’animo degli altri, ovvero l’empatia, è la base dell’esistenza umana, che ci permette di vivere in un’intima connessione con il mondo esterno e con gli altri.
Ed è forse proprio questo il messaggio essenziale di “Echoes”: abbandonare il nostro egoismo e cercare di coltivare un ricongiungimento con la natura, con le persone, con l’universo.
L’inizio dove tutto finisce
“Echoes” prosegue in una lunga parte strumentale che in qualche modo ci riporta indietro, lì dove eravamo partiti.
La chitarra di Gilmour sfocia in un assolo funk, in cui si alternano improvvisazioni di chitarra elettrica e organo per qualche minuto.
Tutto poi sfuma in un ululato di vento che ci porta nella parte centrale e tenebrosa del brano, quella più oscura e misteriosa, in cui ci ritroviamo sperduti tra suoni inquietanti e striduli fischi – che qualcuno interpreta come corvi o gabbiani – che vennero prodotti casualmente da un errato cablaggio del pedale wah-wah da parte di Gilmour, come testimoniato da Wright.
Da quei lontani e spettrali suoni emergerà poi un lungo intermezzo musicale dai tratti new wave, che gradualmente sfocerà in un potente riff di chitarra.
Quel riff ci riporta al tema delle strofe, e questa volta ci troviamo davanti ad un significato ancor più enigmatico, che probabilmente si riferisce a qualcosa di mistico e religioso.
“Almost everyday you fall
Upon my waking eyes
Inviting and inciting me
To rise
And through the window in the wall
Come streaming in on sunlight wings
A million bright ambassadors of morning”
Si intravede ora un senso di contemplazione e fiducia in un’entità che, anche se sconosciuta, ci invita a raggiungerla. È questa una visione di Dio, della morte o della vita che, nascendo, vede la luce? Questa interpretazione la lascio a voi.
Il brano si conclude infine con un’ultima parte musicale simile all’introduzione, ma dalla struttura contraria, terminando con lo stesso “Si” acuto che aveva aperto il brano e che, questa volta, porta via con sé la musica che ritorna dove tutto era cominciato.
Il testo e la traduzione di “Echoes”
Echoes
Overhead the albatross
Hangs motionless upon the air
And deep beneath the rolling waves
In labyrinths of coral caves
An echo of a distant time
Comes willowing across the sand
And everything is green and submarine
Lassù l’albatro
Resta sospeso immobile in aria
E nel profondo, sotto le onde che rotolano
In labirinti di caverne coralline
Un eco di un tempo lontano
Arriva tremante attraverso la sabbia
E ogni cosa è verde e sommersa.
And no one called us to the land
And no one knows the where’s or why’s
Something stirs and something tries
Starts to climb toward the light
E nessuno ci ha chiamati a terra
E nessuno conosce i dove e i perché
Qualcosa si muove e qualcosa prova
A salire verso la luce
Strangers passing in the street
By chance two separate glances meet
And I am you and what I see is me
And do I take you by the hand
And lead you through the land
And help me understand
The best I can
Sconosciuti passano in strada
Per caso due sguardi separati si incontrano
E io sono te e cosa vedo sono io
E ti prendo per mano
E ti guido attraverso la terra
E aiutami a capire
Il meglio che posso
And no one called us to the land
And no one crosses there alive
No one speaks and no one tries
No one flies around the sun
E nessuno ci ha chiamati a terra
E lì nessuno attraversa da vivo
Nessuno parla e nessuno prova
Nessuno vola attorno al sole
Almost everyday you fall
Upon my waking eyes
Inviting and inciting me
To rise
And through the window in the wall
Come streaming in on sunlight wings
A million bright ambassadors of morning
Quasi ogni giorno tu cadi
Davanti ai miei occhi che si aprono
Invitandomi e incitandomi
A rialzarmi
E attraverso la finestra nel muro
Vengono fluttuando nella luce del sole
Un milione di brillanti ambasciatori del mattino
And no one sings me lullabys
And no one makes me close my eyes
So I throw the windows wide
And call to you across the sky
E nessuno mi canta la ninna nanna
E nessuno mi fa chiudere gli occhi
Quindi spalanco la finestra
E ti chiamo nel cielo.
Laureata in Archeologia, Storia delle Arti e Scienze del Patrimonio Culturale alla Federico II di Napoli. All’età di 5 anni volevo fare la “scrittrice”, mentre adesso non so cosa di preciso mi riserverà il futuro. Ma una cosa certa è che la scrittura risulta essere ancora una delle mie attività preferite, una delle poche che mi aiuta di tanto in tanto ad evadere dal mondo.