“A saucerful of secrets”, il secondo album dei Pink Floyd

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Si sa, i Pink Floyd sono diventati l’emblema del rock psichedelico. Anche se a partire dal terzo disco, da quando Syd Barrett fu definitivamente escluso, l’impronta sonora divenne quella di Roger Waters, Richard Wright e David Gilmour. Da lì quel misto di psichedelia e progressive rock. Quelle suite come Atom Heart Mother o quei dischi che hanno lasciato una firma nell’immaginario di chiunque, come the Dark side of the moon, Wish you were here e The Wall.

Ma nel 1968 a mio parere, i Pink Floyd hanno realizzato il loro vero, autentico disco psichedelico. Il titolo ha un nome surreale, onirico: A saucerful of secrets. Tradotto in italiano sarebbe una cucchiaiata di segreti. Era proprio nella formazione di quel disco che Syd Barrett iniziava ad allontanarsi dal gruppo. Questo perché in realtà fu proprio il gruppo a esigere questo. Syd manifestava problemi psichiatrici che andavano a influenzare la creatività, portando confusione soprattutto in quella mente architettonica che era quella di Roger Waters. C’è da dire che si tiene poco in considerazione quanto ci fosse una velata lotta tra follie. Quella di Waters iper-compensata ed egosintonica, mentre in Syd ingestibile, distonica, disturbante. Sul suo personaggio, che è stato riesumato e ricordato spesso per la sua carriera solista in cui assume le fattezze di un menestrello autistico, si è costruito un mito oscuro. Lui che fu divorato dalla sua malattia nel corso degli anni successivi. Escluso dalla gloria di una delle band più importanti della storia della musica.

Proprio in quell’album si andava a definire il nuovo stile dei Pink Floyd. Mentre nel disco precedente risalente al 1967, l’impronta di Syd Barrett era preponderante, ora il massimalismo di Waters, l’etereo sound di Wright e le chitarre blues di Gilmour iniziavano a affermarsi.

L’unico brano di Syd Barrett è l’ultimo, intitolato jug band blues dove si sente forte l’impronta del diamante pazzo, con un testo quasi non-sense dove compaiono parole messe a caso e una melodia che segue scale inopportune, che danno al brano un grande senso di magia. Uno dei più belli dei Pink Floyd di sempre, a mio parere.

Ma il disco viene aperto da un brano scritto da Roger Waters, intitolato Let there be more light. Entra in ballo una sorta di citazione, o riferimento o anche mitopoiesi con il verso “For there revealed in glowing robes was Lucy in the Sky” perché è chiaro che si dichiara una connessione con i Beatles. Proprio l’anno prima i fab4 avevano fatto uscire Sgt pepper’s lonely hearts club band l’album in cui compariva Lucy in the sky with diamonds. Ed è particolare come il riferimento al diamante sia stato poi riutilizzato da Waters per omaggiare Syd Barrett nel brano Shine on you crazy diamonds.

I due brani scritti da Wright sono fenomenali. “Remember a day” triste poesia che parla della gioventù perduta e “See saw” che io ritengo uno dei più brani più belli del gruppo e che invece l’autore definiva noioso. Poi c’è “Set the controls for the heart of the sun” che rievoca uno scenario fantascientifico all’interno di una musica inquietante e ipnotica.

E sempre Waters è l’autore diCorporal Clegg una filastrocca lisergica e aggressiva, originalissima e divenuta molto nota. E poi il brano intitolato A saucerful of secrets lunghissimo, strumentale, che in certi momenti ricorda la musica di Luigi Nono. Ambient ante-litteram con quei tamburi quelle tastiere monotonali alla Giacinto Scelsi, quel richiamo lontano alla tragedia greca, che rimane per chi ricorda Waters che colpisce un gong a Pompei durante il leggendario live.

Un disco che conserva l’autenticità artistica della band che ha rivoluzionato la musica. Un’esplosione creativa e realizzata prevalentemente secondo la logica dell’architetto Roger Waters, dove ancora si respirava l’atmosfera folle e grezza derivante da Syd Barrett, lo gnomo autistico che ha formato i Pink Floyd i quali proprio dopo quel disco cambiavano forma, diventando ancora più importanti. Musica che è stata paragonata alla classica o meglio alla contemporanea. Perché i Pink Floyd sono la contemporaneità. Le loro atmosfere cupe e non-sense rappresentano un’era che ha perso il sentiero e perciò si è fatta più consapevole. Pur navigando in un oceano di follia o in sogni di cucchiaiate. La musica dell’organo nel finale del brano omonimo al disco è la liturgia di questo evento del rock.


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