Le epidemie nella storia della letteratura – Parte I

In questi tempi di Covid-19 sembra che ogni cosa abbia una sorta d’intreccio con tutto il resto: ad esempio le tesi di un virologo che per qualche altro virologo non vanno bene, le tesi di tutto ciò che è pienamente verificabile dalla medicina e dalla scienza e quelle complottiste che vedono il 5g e la plastica negli spurghi come il vero agente patogeno. Sono riemerse le personalità multiple, la paura, la superstizione, il gatto nero che ti attraversa la strada senza mascherina: vecchie teorie medievali risorgono, tipo che hanno riaperto Poveglia per metterci gli infetti, qualcuno ha deciso di riprendere in mano l’Apocalisse, i francesi per igiene hanno rimesso addirittura l’obbligo di due bidè per casa. La chiesa ci richiama alla penitenza e alla conversione, l’Isis tutto a un tratto ha deciso di invadere ogni fabbrica di igienizzanti per poterne avere abbastanza per pulire le canne dei fucili. La moltiplicazione dei punti di vista e dei pensieri di chi non c’entra nulla con la scienza e fino a oggi aveva la terza media è palesemente incontrollata, tanto che ormai il master lo prendi solo se scrivi uno stato su Facebook. Le persone si sono chiuse in casa, eppure nessuno ha mai realmente smesso di farsi i fatti propri (per non usare un altro termine), e forse è proprio questo il problema basilare, oltre al Covid-19. E sapete cosa si dovrebbe fare? Leggere, e informarsi. Leggere e apprendere dalla Storia.

Perché al di là di tutto, nonostante scienza e rassicurazioni da parte di Burioni and friends, quello che ha più spaventato in questo avverso presente non è stato sicuramente l’ignoto con cui ci siamo dovuti scontrare (come poteva capitare nei secoli passati), sebbene si tratti di una minaccia virale non ancora completamente conosciuta ai grandi della medicina e che stiamo provando a debellare da qualche mese con l’introduzione di un vaccino; quello che più ha sconvolto il globo è l’ampiezza e l’ovvietà (quasi banale) dei conduttori della polmonite da Sars CoV-19, ovvero gesti come stringere le mani, abbracciare, giocare a carte in un bar, tenersi ai corrimano dei bus e delle metropolitane, il passaggio di soldi, lo starnutire di chi ci sta accanto, il semplice parlare e sperare che una particella droplet non si introduca nella bocca al tizio che abbiamo di fronte. Circostanze banali, ma che hanno in sé una forte componente attrattiva e di studio su come prima e ora si stia affrontando tutto quel che ci sta capitando.

Ma queste cose, che se ne dica o se ne racconti, sono già capitate durante gli anni, e spesso dovremmo anche ricordarci che, nei volumi che studiamo a scuola, le epidemie e le pandemie sono quasi sempre contemplate. Partendo dalla Bibbia, infatti, il grande libro sacro dei cristiani, troviamo spesso nei salmi le parole “peste” ed “epidemia” spesso correlate a una punizione divina del Signore. Pensiamo a come venivano considerati i lebbrosi al tempo di Gesù: impuri ai quali Dio aveva dato una croce. Ad esempio, nei Libri profetici di Isaia leggiamo: “Farò giustizia di lui con la peste e con il sangue.” (Ezechiele 38,22); “ho mandato contro di voi la peste, come un tempo contro l’Egitto.” (Amos 4,1); “diede sfogo alla sua ira, non li risparmiò dalla morte e diede in preda alla peste la loro vita.” (Libri Poetici, Salmi 77,50).

Tuttavia con il passare degli anni, nel Medioevo, per esempio, fortunatamente le malattie hanno assunto anche altre accezioni, lasciandosi (dove il bigottismo non imperversava) alle spalle quelle colpe da espiare e divenendo argomento di studio, ricerca e importanti scoperte. Un’epidemia o una pandemia possono innescare delle conseguenze a catena: diminuiscono le braccia necessarie al mercato, al lavoro, si abbassano quindi i consumi, modifica gli equilibri sociali scatenando rivolte dei ceti meno abbienti e più poveri, modifica i comportamenti e gli atteggiamenti degli uomini, per esempio limitando la propensione al contatto fisico, può ritardare i matrimoni e nascite dilatando ulteriormente un periodo caratterizzato da un basso tasso demografico. È successo anche nel 1300, con la Grande peste, che ha portato allo stremo il nostro popolo. E anche qui grandi scrittori hanno voluto dare spazio tra le loro pagine al momento storico che stavano vivendo.

“V’è grande moria, mortovi gran numero di persone; Al morto faccia Idio verace perdono, se gli piace. Morì que l’abate di San Bartolomeo che parea non dovesse mai morire, e vi forno 100 morti al dì.”

Attraverso queste parole di Francesco Datini (Rosati) nelle lettere che inviava alla moglie mentre il contagio imperversa in Toscana, riviviamo lo stato d’animo (che ben conosciamo) di chi ha vissuto la terribile esperienza della peste nera. Ce lo racconta anche Manzoni, che esamina nello specifico il caso della peste di Milano del 1630 nel suo romanzo più conosciuto: I promessi sposiLa sua analisi “romanzata” può essere utile per capire meglio le reazioni che oggi si riscontrano verso ciò che è accaduto quando il virus ha cominciato a espandersi, soprattutto nella prima fase dell’epidemia, quando per molti era ancora “una malattia simile all’influenza”, ovvero la negazione della realtà (forse per paura) e di quanto in fondo stava per accadere e alla fine, purtroppo, è accaduto. La peste è realtà spaventosa e terrificante per Manzoni e per i suoi personaggi, ma per negarla bastano ragioni e motivazioni contingenti e banali come “la penuria dell’anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d’animo” per spiegare l’aumento di mortalità, così che poi, “chi buttasse là una parola del pericolo […] veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo”.

Tuttavia – ed è storia conosciuta – fu proprio quella negazione della realtà a favorire l’ingresso della peste nella città milanese. Nonostante ciò, molti medici ed eruditi all’epoca minimizzavano il tutto. Ed è solo con l’ammalarsi anche di persone “famose” e importanti che si riuscì a dare più verità a ciò che stava succedendo. Quello che però abbiamo fatto noi è stato aver cominciato da subito a evitare il contatto con le altre persone, cosa che invece in quegli anni sembrava non accadere all’inizio. Sì, un po’ pasticciando, ma è stato un provvedimento che è partito comunque già dalle prime fasi. Un’altra cosa che è stata ribadita ne I promessi sposi è stato il “dare la colpa a chi si ammalava”, con la mitologica figura che tutti conosciamo bene..

“La mattina seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo colpì gli occhi e le menti de’ cittadini. In ogni parte della città, si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne. O sia stato un gusto sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso e più generale, o sia stato un più reo disegno d’accrescer la pubblica confusione, o non saprei che altro; la cosa è attestata in maniera, che ci parrebbe men ragionevole l’attribuirla a un sogno di molti, che al fatto d’alcuni: fatto, del resto, che no sarebbe stato, né il primo né l’ultimo di tal genere. (…)”

Un altro autore (un po’ meno vecchiotto di Alessandro Manzoni) che ha trattato il tema delle epidemie è stato Albert Camus, che ha intitolato un suo romanzo proprio La peste. Pubblicato nel 1947, in questi ultimi tempi è tornato alla ribalta per una serie di motivi abbastanza ovvi. Anche qui la comparazione con altre figure che si sono prese la briga di parlare di epidemie c’è stata, perché anche in questo libro ci sono molte analogie, sia con i romanzi sia per quanto concerne il momento storico che noi tutti stiamo vivendo. Questo testo racconta il dilagare di un’epidemia di peste che si manifesta in un tempo non precisato degli anni ’40 del secolo scorso, in una città dell’Algeria. È un testo che dà ampio spazio alla visione emotiva dei personaggi in un periodo infausto, che dà senso al dolore che invade l’animo quando il mondo agli occhi di tutti sembra spegnersi senza senso. Attraverso questa serrata analisi psicologica che dà comunque vita (laddove vita viene tolta) alla vasta gamma di emozioni, sentimenti e passioni dell’essere umano nel viaggio di dolore fino alla constatazione di una possibile via d’uscita. Vengono sviscerate, tra queste pagine, le dinamiche interpersonali, politiche, economiche e soprattutto affettive che si verificano durante certi momenti di privazione umana dettata dalle quarantene preventive che non sono messe in campo. 

“Estrasse da uno sterilizzatore due maschere di garza idrofila, ne porse una a Rambert e lo invitò ad indossarla. Il giornalista domandò se serviva a qualcosa e Tarrou rispose di no, ma che rassicurava gli altri.”

Camus introduce anche il tema dell’esilio che, rivisto nel nostro caso, è la separazione dagli affetti, la privazione della libertà. Racconta della paura della morte e dell’impotenza umana di fronte alle catastrofi naturali. E dà spazio anche alla forza, al coraggio, e alla consapevolezza, quella che perviene soltanto con il dubbio circa le verità acquisite, studiate e le informazioni reali che vengono divulgate. Temi ampiamente attuali come quello della risposta individuale e collettiva di fronte a un male che colpisce tutti e la risposta della speranza, la stessa che riversavamo noi in quegli arcobaleni fuori dai balconi, una speranza che può riportare a “essere felici insieme agli altri”. Tutti questi aspetti presi in esame sono considerati dal punto di vista prettamente umano e questa è una peculiarità di Albert Camus.

Appare fin qui abbastanza semplice e chiaro poter constatare la proiezione del lettore in una realtà, quella camusiana ma anche quella manzoniana (seppur dà sfondo a un’altra storia), che riproduce le caratteristiche estremamente vivide e affini a quella che lui stesso si ritrova a vivere e affrontare. Vi lascio con una riflessione della Dott.ssa Pierangela Adinolfi, docente di Culture e Letterature d’Area Francese e Francofona all’Università di Torino​, che a me ha fatto molto riflettere, spero possa essere altamente funzionale anche per voi:

“Anche prima di ‘questi strani giorni’, la Peste custodiva il suo alto contenuto di senso, quindi non è l’attualità che dà valore al libro, bensì il contrario. Si dovrebbe, pertanto, ribaltare la prospettiva: non sono i libri a essere attuali, ma sono gli eventi storici, fausti e infausti, che si ripetono ed è dai libri che possiamo ricavare una lezione di senso, quel senso che secondo la Peste è collocato nella solidarietà e nella lotta umana contro l’assurdo.”