Il potere narrativo della barzelletta

Il potere narrativo della barzelletta

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Fonte immagini: Steno-Primex

La Barzelletta del cavaliere bianco e del cavaliere nero dice:

Il cavaliere bianco e il cavaliere nero decidono di fare un duello. Alla fine di questo duello il cavaliere nero ammazza il cavaliere bianco.

Quindi, che succede? E niente, il cavaliere bianco aveva tre figli. Tutte e tre decidono di vendicare il padre e sfidano a loro volta a duello il cavaliere nero. Allora il cavaliere Nero accetta la sfida e uno per volta li ammazza tutti e tre.

Ora, si da il fatto che questi tre figli avessero tre figli ognuno…

No, aspetta. C’è qualcosa che non funziona. Non è così, non si sente. Proviamo dicendo subito che In una classe de scola s’arza un coatto pe’ raccontà ‘na storia. Ecco, già si sente di più. La storia racconta che

er cavaliere bianco e ‘r cavaliere nero fanno a duello; er cavaliere nero ammazza er cavaliere bianco.

Mo’ er cavaliere bianco c’aveva tre fii: tutt’e tre sfidano er cavaliere nero, ma er cavaliere nero l’ammazza tutt’e tre.

Mo’ ‘sti tre fii c’avevano tre fii per uno; tutt’e nove sfidano er cavaliere nero. Ma er cavaliere nero l’ammazza tutti e nove.

Barzellettieri e no

Non serve raccontare come va avanti: tutti conoscono la barzelletta del cavaliere bianco e del cavaliere nero di Gigi Proietti. Sì, lo so, non ha senso dire che è sua. Nessuno possiede realmente una barzelletta, perché nessuno l’ha realmente creata (avete mai sentito parlare di un copyright su una barzelletta?); ma ognuno possiede la sua versione, la sua interpretazione. Il vero raccontatore di barzellette mette talmente tanto del suo in una barzelletta da renderla propria, inscindibile. Ci vuole coraggio per raccontare una barzelletta di Proietti, o meglio ancora, di Gino Bramieri, il più famoso barzellettiere d’Italia.

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Fonte foto:  Bramieri-De vecchi editore.

Ci vuole coraggio perché a meno di non possedere doti immense sarà una sconfitta certa. Bisogna essere autori per potere sostenere una barzelletta: ci vuole corpo, personalità. Non basta conoscere una barzelletta di Proietti o Bramieri per riuscire a sostenerla. E non basta neanche raccontarla come la raccontavano loro per riuscire a tenerla in vita. Una regola fondamentale dice che quando muore chi la racconta muore anche la barzelletta stessa. Fino a che qualcuno non riesce a farla di nuovo propria, almeno. Pertanto bisognerebbe evitare di raccontarla ancora fino a che essa in qualche modo non riesca a tornare in vita.

Anche se non è morto

Il raccontatore non deve per forza morire, sia chiaro: basta che non ci sia. “Com’è che era..? Cavolo, Mario sì che la raccontava bene..”: ecco, lì una storia è morta. È morta nel perimetro del suo raccontatore, non esiste più, non funziona, non è lei. La stessa regola di prima dice anche che non è la barzelletta a far ridere, ma il barzellettiere. Non sarebbe importante la storiella in sé, ma come viene raccontata. Se si sbaglia la battuta finale, il punch-line, il disastro è servito.

Non è del tutto vero, chiaramente, ma ha un senso. Una barzelletta che non fa ridere continuerà a non far ridere. Ma all’interno della stessa esistono altri fattori che ne sono struttura. E che se essa fosse un testo, qui sarebbero descrizioni, emozioni, sentimenti, punteggiature corrette, anacoluti, mandate a capo, parole interrotte. Umanità.

Esattamente come una barzelletta, a comporre un testo non sono semplici parole. Generalmente i veri raccontatori di barzellette sono intellettuali, filosofi, pensatori, osservatori e descrittori di vita (anche involontari). Capaci, cioè, di descrivere un mondo in due parole o in un’alzata di sopracciglia. Umberto Eco, ad esempio, era un feroce narratore di storielle, e le sapeva raccontare decisamente bene. E le teorizzava, le analizzava, cercava di scoprire a sua volta il mistero che si celava in quei piccoli capolavori. Oh, guardate che far ridere è difficile, eh!

Un esempio negativo

La barzelletta è un esempio di perfezione letteraria che va oltre il testo: una vera e propria opera d’arte. Se cambi l’artista questa sarà per forza diversa, e difficilmente vivrà o sopravvivrà allo stesso modo.

Un classico esempio è quello di Silvio Berlusconi, famoso, tra le tante cosa, per essere un terribile raccontatore di barzellette. Le uccide, con lui non funzionano. Le barzellette dell’ex Premier non fanno ridere, è noto. Di lui si possono dire tante cose, ma una è sotto gli occhi di tutti: è un sicuramente un pessimo scrittore.

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Fonte foto: Achille Campanile-Rizzoli. 

Da dove vengono le barzellette

Se cerchiamo il significato di barzelletta troveremo:

breve racconto umoristico, trasmesso prevalentemente in forma orale, mirato a scatenare reazione ilare.”

Verrà spiegato inoltre che il meccanismo è il rovesciamento in forma comica, ridicola o semplicemente inusuale di una situazione normale. In tal modo dovrebbe essere condivisa e compresa da chiunque. Tale rovesciamento può verificarsi sin dall’inizio del racconto, nel corpo o, più frequentemente, al termine. Una spiegazione abbastanza fedele nei fatti, ma che nella sostanza, come visto, cela di più: qualcosa di impossibile da circoscrivere.

In tanti hanno provato a cimentarsi letterariamente sul mistero delle barzellette, tra i quali ricordiamo almeno Isaac Asimov e Alfredo Castelli. Il primo con Barzellettiere, facente parte sia della saga del Multivac che di quella dei Robot. Il secondo con la doppia storia di Martin Mystére Morte al varietà-L’uomo che inventava le barzellette.

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Fonte foto: Isaac Asimov-Infinity.

È da precisare che probabilmente la seconda storia si rifà alla prima, pur evolvendosi naturalmente in maniera del tutto autonoma. Lo spunto è dato chiaramente da uno dei più grandi misteri di tutti i tempi: chi inventa le barzellette?

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Fonte foto: Sergio Bonelli Editore (in tale sede ancora riportata come Daim Press).

Ovviamente tutti sanno che la domanda non ha risposta. Nessuno inventa le barzellette. O meglio, nessuno le inventa ex novo. Si formano poco a poco, come immensa elaborazione collettiva spontanea. Partendo da uno spunto che sollevi un minimo gioco di parole, un lapsus, un qui pro quo, un banale incidente. Qualcosa che cambia di bocca in bocca fino a diventare, almeno nel suo universo narrativo, una storia di senso compiuto.

Le prime ricerche

Ciascuno corregge quindi il racconto che gli era pervenuto, arricchendolo sino a che la barzelletta diventa quella che conosciamo. Ecco che allora il cavaliere nero di Proietti si può, forse, effettivamente intendere di Proietti. Prima ancora di Eco, il drammaturgo Achille Campanile aveva scritto nel 1961 un importante libro in proposito. Dopo averne raccolte una quantità sterminata, l’autore cerca di tracciarne l’evoluzione storica, elencando e catalogando personaggi e temi principali.

Asimov e Castelli giungono alle medesime conclusioni: la barzelletta non sarebbe potenziale umano, che potrebbe arrivarci solo attraverso un lunghissimo lavoro collettivo di trasformazione, tra l’altro del tutto involontario. Secondo questa visione l’uomo non andrebbe oltre il singolo gioco di parole, la freddura, la veloce battuta di spirito. Quindi la spiegazione (letteraria, sia chiaro) è che la barzelletta dovrebbe avere senza alcun dubbio un’origine aliena o superumana.

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Fonte foto: Kirsten Bonafield

Il capocomico e la struttura della barzelletta

Fantasia a parte, quello che i due sottolineano è che dietro una barzelletta c’è una infinità di cose invisibili. Per fare un parallelismo con la scrittura, per raccontare una storia devi saper raccontare una barzelletta.

Abbiamo infatti detto che la diffusione della barzelletta è prevalentemente legata alla forma orale. Il motivo è chiaro: perché abbia corpo e forza deve essere accompagnata dalla mimica e da una caratterizzazione dei protagonisti. Ciò perché recitazione, tempi e ambient sono fondamentali riuscire a coinvolgere appieno lo spettatore, che ne è parte in causa. Tutti i tempi e i modi sono studiati e costruiti su di lui. Nella barzelletta c’è quindi tutto: dialoghi e strutture di qualsiasi testo sono sempre sorretti da un momento comico. Il punto preciso, cioè, in cui la battuta funziona. Di qualunque tipo di battuta si tratti. La figura che è al contempo il primo attore e direttore di una compagnia di recitazione è il capocomico, no?

Chi conosce il tempo comico controlla le storie.

Come si misura il tempo

La scansione delle battute è fatta di una precisione dettata da momenti scanditi con un ritmo quasi matematico. La stessa battuta detta in un punto diverso della barzelletta (o con un ritmo non adeguato) non fa ridere. O fa ridere meno, o la percepisci dilatata, annacquata; spesso telefonata, anche solo di un istante. La risata sguaiata si trasforma quindi in un mezzo risolino: ecco, lì si parla di un tempo comico sbagliato. Troppo veloce, troppo lento, non calibrato.

Il tempo comico guida la scansione di ogni tipo di battura. C’è il momento in cui funziona e quello in cui, semplicemente, è solo un pezzo di testo nero su bianco. E c’è sostanziale differenza tra lasciarlo tale e renderlo parte di un pezzo di esistenza, e quindi di una storia.

C’è ancora altro

Ma non è tutto. Il momento perfetto non basta. Possiamo mettere la battuta giusta al momento giusto e comunque essa può continuare a non funzionare. Ed è proprio al teatro che continuiamo a guardare: qualunque testo, per poter essere vivo e funzionale, deve essere recitato. Avete mai sentito una persona che racconta una barzelletta perfetta eppure non fa ridere? Non era perfetto lui, non era allineato, non c’erano i personaggi. I personaggi della barzelletta devono essere vivi, umani, insostenibili, odiosi, maschi, femmine, bambini, animali, oggetti, devono essere tutto! Il raccontatore stesso deve essere tutto: vittima e stronzo, ignaro e odioso, i tempi di silenzio e l’attesa alla battuta successiva. Ci sono barzellette che finiscono sfumando, come anche altre che hanno bisogno di una recitazione intensa e precisa. L’interlocutore deve essere sempre parte attiva della trama. Tanto da spingerlo a intromettersi e da rispondere a lui come se egli stesso fosse stato parte integrante della storia. Il raccontatore controlla anche la sua mente: è parte della storia e farà quello che vuole il raccontatore. E nemmeno lo sa!

Tutto in un istante

La barzelletta inizia, si descrive e trova conclusione nell’arco di pochi istanti. È composta di gabbia precisa e arcana, distribuita in labirinti narrativi in cui è sempre il capocomico il direttore d’orchestra. Ha una satira onesta perché è cattiva, è violenta, offende: non gliene frega niente del politically correct. Né del copyright, né della coerenza narrativa o dei problemi dell’infodump: non ti devi offendere, stacce: lei attacca tutti. Si regge su “facciamo che”, su “ci sono un italiano, un inglese e un francese”, e basta, a posto. Sta all’abilità del narratore tenercelo. Che proprio perché esisterà per non più di pochi secondi deve essere PERFETTO per ogni singolo istante della sua esistenza. Nella barzelletta non ci sono tempi morti! “Ah, no, scusa…mi ero dimenticato di dirti che c’era anche…”, e basta, la storia è morta. La barzelletta ha solo un momento in cui può funzionare. Non ci sono scuse, niente seconde prove. Non si può raccontare di nuovo, non si può spiegare che cosa squallida. Né si può accusare qualcuno per non averla capita. O fa ridere lì, o no.

Una perfezione assoluta. La morale è: a chi vuole imparare a raccontare storie suggeriamo fortemente le barzellette di Gino Bramieri.

O proietti.

E questo è tutto.

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Fonte foto: Isaac Asimov-Doubleday

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