Il teatro è un’arte che vanta una crisi storica. Sin dai tempi antichi, se pensiamo alla sua storiografia, scopriamo che il teatro è sempre stato investito dall’incertezza e la sua stessa ragione d’essere è nella fragilità.
Non sappiamo bene definire la sua origine. Compare nel rito, in un’epoca in cui la rappresentazione faceva parte del quotidiano. Quando ancora non era nato, il teatro era la vita. Gli uomini vivevano le loro gestualità, il loro verbo primitivo, come qualcosa che faceva parte della loro stessa carne. Non ne erano pienamente coscienti, almeno a quanto sosteneva lo psicologo Jaynes nella sua monumentale opera “La mente bicamerale e l’origine della coscienza” del 1976, dove azzardava che l’uomo antico vivesse nel mito al punto che la sua mente si organizzava in maniera diversa, motivo per cui la realtà era davvero mitica.
Non mi dilungherò sul contenuto di quel testo. Lo uso solo come spunto di riflessione per tornare al Teatro. Dicevamo infatti che se guardiamo dall’alto, come onniscienti uomini del 2000, al passato dell’arte drammatica, scopriamo che non solo oggi è la più sgangherata fra le arti, ma così è sempre stato.
Si definiva nella tragedia, prima con Eschilo in una forma ancora vicina al mondo tremendo e sacro da cui proveniva, e ha avuto la sua trasformazione (come giustamente fece notare Nietzsche) con Euripide, che potremmo definire il primo drammaturgo “moderno”.
Il teatro con Euripide ha iniziato ad avere la funzione di rendere lo spettatore esterno a quanto accadeva alla scena. È arrivato Aristotele a definire i concetti di “catarsi”, “mimesi”, “fabula”. La funzione del teatro diventava, infatti, mostrare una verità che fosse preservata alla comunità. Ciascuno guardando la messa in scena, poteva riconoscere l’errore che non avrebbe dovuto compiere. Gli spettatori potevano finalmente riconoscersi in Edipo, per potersene liberare.
Non più sacrifici umani di traditori o criminali ai fini del rito sacro. Ora il teatro narrava le vite di chi lo osservava, così da poter fondare una quarta parete che separasse il quotidiano dall’extraquotidiano.
La vita degli attori comporta una condanna, che è quella di dover accogliere un po’ di quell’extra nella propria routine. Motivo per cui da sempre hanno necessitato di protezione. Così vediamo che nella storia l’attore è sempre stato o venerato, o vituperato. Pare infatti che nella storia romana ci furono epoche in cui emergevano grandi nomi come Plauto, Terenzio ma anche autori disprezzati come Livio Andronico, e pare in alcuni periodi chiunque salisse su un palco rientrasse fra gli infami privi di diritti, posti accanto a prostitute e criminali seriali. E se guardiamo al medioevo scopriamo che il teatro era proibito e che le uniche rappresentazioni ammesse erano quelle religiose.
Sicuramente in quei tempi c’è stato tanto teatro che è sfuggito alla Storia. Forse si trattava di qualcosa di meraviglioso o chissà. Non potremo saperlo con chiarezza. Qualcosa ci è stato tramandato e Dario Fo lo ha restituito alla contemporaneità (a suo modo). Però sappiamo che a un certo punto è tornato. Anche se dire “tornare” è inesatto, perché forse semplicemente ha smesso di nascondersi.
È diventato finalmente un’arte laica. Da Machiavelli a Shakespeare. Questo però per quanto riguarda la storiografia che è sempre patchworking dei momenti più significativi. Ma se andiamo a sbirciare che cosa succedesse in un teatro nell’epoca elisabettiana, scopriamo che gli infami non se ne erano mai andati e che la persona che saliva su un palco si circondava da pazzi, scavezzacollo, prostitute, e scopriva di essere uno di loro. Così valeva per il pubblico, rumoroso e irrispettoso, insomma festaiolo.
A ben pensarci è andata avanti così a lungo. Il teatro è sempre stato in crisi. E questo arrivando alla coscienza con Baudelaire che diceva “del teatro mi piacciono i lampadari” o Artaud che iniziava a parlare di un “teatro della crisi”. Si segnò bene la linea che marcava il teatro nella sua essenza e fedeltà rituale, e il suo compromesso, il suo “doppio”, ormai maturato nel realismo di Stanislavskij, maxischermo e pop corn ante litteram.
Pensare alla Storia del teatro, induce nel sospetto che questa sia in realtà ancora breve. Perché a ben pensarci solo nel secolo scorso nasceva il cosiddetto “teatro di regia” alla Strehler. Ma in ogni modernità, anche quelle più remote, si ha sempre l’impressione che tutto quel che viviamo sia eterno. Sempre il teatro ha usato il disprezzo verso sé stesso, quello declamato con beffarda ironia da Carmelo Bene che diceva di voler distruggere il teatro. Proprio perché sapeva che l’essenza del teatro sta davvero nel suo svanire, nel suo essere fuori dalla Storia, nel suo appartenere a tutti al di là della sua contestualizzazione. Quella fabbrica di contesti che è il teatro, la si intravede proprio andando a teatro, oggi che non è più possibile e che tutti gli attori stanno a casa, genuflessa davanti al grande assente che è il tremendo, il sacro, che apre il sipario creando una frattura con l’irrappresentabile. Non più visibile, davvero buio. Il teatro infame si manifesta come l’unico dotato di vera dignità. Perché non ha bisogno di palchi. È solo il sintomo comunitario che da sempre attanaglia la Storia e che chiede di essere distrutto, ma lo fa contraddicendosi, creando una fortezza, che è la sua Storia, il suo poter sopravvivere solo nel racconto tramandato di orecchio a orecchio.
Luca Atzori, laureato in filosofia, ex direttore artistico del Teatro Piccolo Piccolo, Garabato e membro fondatore del Mad Pride di Torino. Drammaturgo, attore, poeta, cantautore. Autore dei libr: Un uomo dagli occhi rotti (Rizomi 2015) Gli Aberranti (Anankelab 2019), Teorema della stupidità (Esemble 2019) Vangelo degli infami (Eretica 2020) e dei dischi Chi si addormenta da solo lenzuola da solo (2017), Mama Roque de Barriera (2019) Insekten (2020) Iperrealismo magico (2020) Almagesto (2021).