Hannah Arendt, storia dell’autrice de “La banalità del Male”

Hannah Arendt, una delle pensatrici piu’ note e influenti della filosofia e della teoria politica occidentale, è nata in Germania nel 1906 da una famiglia ebrea. Trasferitasi a Marburgo per studiare filosofia all’università, entra in contatto con un filosofo brillante quanto controverso, Martin Heidegger, suo professore e, sembra, anche suo amante per un certo periodo di tempo, nonostante la sua posizione (lei allieva, lui insegnante), la sua età (lei 18 anni, lui quasi il doppio, 35), il suo stato (sposato e con figli). A dispetto delle circostanze poco favorevoli, il loro amore durerà tutta una vita, al di là delle separazioni fisiche e dei contrasti ideologici, anche forti (lei gli rinfaccerà, ad un certo punto, i suoi presunti legami col nazismo). A riprova, la dedica manoscritta ritrovata nel lascito della Arendt, che avrebbe dovuto figurare sulle pagine di uno dei suoi capolavori, The Human Condition:

«De Vita activa
Come faccio a dedicarlo a te,
l’intimo amico,
cui sono e non sono
rimasta fedele,
sempre per amore»

Nel 1926 Arendt si sposta all’università di Heidelberg dove, sotto la guida di un altro eminente rappresentante della filosofia esistenzialista, nonché buon amico di Heidegger, Karl Jaspers, si laurea con una tesi sul concetto di amore in Sant’Agostino. Il suo obiettivo era poter accedere alla cattedra e insegnare ma, a causa delle sue origini ebraiche, le viene negata l’abilitazione dal regime nazista. Nel 1933 viene inoltre imprigionata per alcuni mesi dalla Gestapo, sotto le cui mire era finita a causa del suo interesse verso le tematiche antisemite.

Nel frattempo, la saggista si era sposata con un altro allievo del suo mentore, Heidegger, il filosofo Günther Anders, da cui divorzierà otto anni dopo perché, come lei stessa ha in seguito confessato, il suo pessimismo era “difficile da sopportare”. Il suo non era comunque stato un matrimonio di gran passione se, come bizzarramente confida in una lettera a Elfride Heidegger, la moglie del suo ex-amante, “quando lasciai Marburgo, ero assolutamente decisa a non amare mai più un uomo; e poi mi sono sposata, giusto per sposarmi, con un uomo che non amavo”.

Seguendo il marito, dopo la scarcerazione, Arendt parte per Parigi, dove viene a contatto col filosofo e scrittore marxista Walter Benjamin, che è tra l’altro il cugino di Günther – smentendo così clamorosamente ogni legge statistica sulla probabilità di incontrare un numero elevato di individui eccezionali nel corso di una stessa vita.

In Francia, Hannah Arendt si dedica ad aiutare i rifugiati ebrei, motivo per cui nel ’37 la Germania le toglie la cittadinanza tedesca. Dopo l’occupazione, nel 1940, si sposa con il poeta tedesco Heinrich Blücher, (questa volta per amore), ma viene internata nel campo di Gurs dai nazisti. Riesce miracolosamente a scappare dopo poche settimane e, nel 1941, a lasciare l’Europa con un falso visto per riparare negli Stati Uniti. A New York continua il suo impegno per la comunità ebraica tedesca, scrivendo articoli e riflessioni sull’antisemitismo. 

Hannah Arendt

 

Il suo lavoro maggiore vedrà la luce a guerra finita, nel 1951, probabilmente dal desiderio di analizzare la natura del potere e le cause degli orrori appena trascorsi. In Le origini del totalitarismo Arendt pone sullo stesso piano stalinismo e nazismo, esaminandone le comuni radici antisemite e considerando questa “forma di governo” come completamente differente dai despotismi precedenti in quanto fondata sull’applicazione del terrore per soggiogare la popolazione piuttosto che i propri avversari politici. Accomunare il modello sovietico a quello tedesco suscitò molte critiche sia negli USA sia in Europa, poiché per la maggior parte dei teorici politici si trattava di due paradigmi completamente differenti.

Il pensiero politico di Arendt viene spiegato appieno in quella che è considerata la sua opera più esemplare, la già citata The Human Condition – in Italia tradotta come Vita activa: “agire” per lei significa “prendere un’iniziativa, incominciare, mettere in movimento qualcosa” e questo “agire” è “politico” perché visto e rilanciato dagli altri. Per far capire che ogni azione è un inizio, la filosofa utilizza un’immagine forte, quella della nascita, in contrapposizione a quella della morte, tradizionalmente utilizzata dalla storia del pensiero precedente. Il solo fatto di nascere dà il via a uno spazio di libertà inedito, simile all’inizio dell’agire. Anche grazie alla centralità di questo concetto di nascita, Arendt è diventata una pensatrice fondamentale per le teoriche del movimento femminista in Italia e nel mondo.

La banalità del male

Nel 1960 Arendt si offre come inviata al The New Yorker per seguire in Israele il processo al gerarca nazista Adolph Eichmann, catturato quello stesso anno in Argentina. Arendt era interessata a vedere da vicino che genere di persona potesse essere quella colpevole di atrocità quali la deportazione degli ebrei e l’Olocausto.

Ciò che si palesa davanti ai suoi occhi, però, è la realtà non di un mostro terribile e sanguinario, ma la piccola mediocrità di un uomo comune. Un burocrate. Ligio agli ordini ricevuti, desideroso di far carriera senza porsi troppi quesiti, memore solo dei suoi successi personali, incurante delle conseguenze di questi ultimi verso altri esseri umani. Un uomo lungi dall’essere diverso dagli altri, straordinario nella sua malvagità. Un uomo normale. Reso inumano, però, dalla sua – attiva – decisione di rinunciare alla facoltà propriamente umana di pensare, di discernere il bene dal male, di considerare il risultato delle proprie azioni.

Le affermazioni di Arendt erano per certi versi sconvolgenti, e sono state aspramente criticate da chi vi vedeva una sorta di giustificazione del comportamento di Eichmann e degli altri nazisti, ma la teorica politica tedesca non voleva in nessun modo difendere i suoi abomini. Nel bel film del 2013 a lei dedicato, per la regia di Margarethe von Trotta, la protagonista spiega chiaramente che il suo intento, da studiosa, era tentare di comprendere, cosa ben diversa dal perdonare.

La sua analisi, che considera la mancanza di memoria e di riflessione sulle proprie azioni – e, soprattutto, sulle loro conseguenze – come origine e spiegazione di comportamenti estremamente malvagi da parte di persone estremamente ordinarie, è stata in seguito ripresa da altri pensatori, anche psicologici. Suona tristemente attuale, se si pensa ai famigerati leoni da tastiera, ai troll e agli hater, che seminano odio senza fermarsi mai a pensare agli effetti concreti di ciò che stanno facendo contro delle persone reali. Come sostiene Arendt, “la lontananza dalla realtà e la mancanza d’idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo”.

Vale la pena di soffermarcisi a riflettere e, se non l’avete ancora fatto, approfittarne per guardare il film Hannah Arendt, che i tedeschi avevano candidato all’Oscar l’anno in cui poi se lo è aggiudicato il nostro Sorrentino con La grande bellezza. Che qualche lezione che ci ricordi la nostra storia recente non fa mai male.