Fine novembre 1923. In Val di Scalve serpeggia l’inquietudine. Tutti sanno che quella diga sotto il Monte Gleno è stata costruita male: i progetti sono stati modificati troppe volte, si è risparmiato sui materiali. Gli abitanti della valle lo sanno, perché ci hanno lavorato, e molti sperano che per riparare le continue perdite ci sarà la possibilità di lavorare ancora. Anche se forse non verranno sistemate, perché vengono utilizzate per produrre ulteriore energia.
Piove da giorni. È il primo dicembre 1923, sono le 7.15. All’improvviso, un boato. La diga è crollata. I seimila metri cubi di acqua contenuti nel bacino si riversano con violenza nella valle sottostante. Acqua e fango si portano via i borghi di Bueggio, Dezzo, Azzone, Colere, Mazzunno, Boario e Darfo, fino ad arrivare al lago d’Iseo. In quarantacinque minuti, una valle intera viene rasa al suolo: vengono distrutte centrali elettriche, paesi, case, molte vite umane. Furono ritrovati 360 corpi, ma morirono più di 500 persone.
Come fu possibile un disastro del genere?
La storia della Diga del Gleno iniziò nel 1907, quando l’ingegner Tosana chiese una concessione per lo sfruttamento idroelettrico del torrente Povo, nell’ottica di produrre energia per le fabbriche a valle. La concessione venne poi ceduta all’ingegner Gmur che a sua volta la cedette alla Ditta Viganò. Nel 1917 il Ministero dei lavori pubblici autorizzò la costruzione della diga a Pian del Gleno. Senza attendere l’approvazione del progetto da parte del Genio Civile, la ditta Viganò annuncio l’inizio dei lavori. Nel 1919 l’ingegner Gmur, dopo aver firmato il progetto esecutivo per una diga a gravità, morì e venne sostituito nel 1920 dall’ingegner Santangelo. A settembre dello stesso anno la Prefettura di Bergamo mandò gli ispettori a controllare la calcina, che veniva utilizzata al posto del cemento per la costruzione della diga, ma i materiali non vennero mai esaminati. Solo nel 1921, a lavori già iniziati, venne approvato il progetto esecutivo, e il Genio Civile, nelle vesti dell’ingegner Lombardo, constatò che l’opera in costruzione non era una diga a gravità, bensì ad archi multipli. Le basi delle arcate, però, non erano costruite sulla roccia come avrebbero dovuto, ma sul tampone a gravità. Il Ministero dei lavori pubblici, informato della situazione, sospese i lavori chiedendo la presentazione dei nuovi progetti. La costruzione però non si fermò, e i progetti furono presentati solo nel 1923. A ottobre dello stesso anno la diga si riempì e iniziarono a verificarsi numerose perdite, proprio nei punti in cui le arcate poggiavano sul tampone a gravità. Fino al disastro del primo dicembre.
Chi furono i responsabili?
Due giorni dopo la tragedia, il re Vittorio Emanuele III e Gabriele d’Annunzio visitarono Darfo, rasa al suolo, e commemorarono le vittime. Il regime fascista, però, promotore della costruzione di molte altre dighe italiane, tendenzialmente cercò di non dare troppa visibilità al disastro, che difatti non è molto conosciuto se non dagli abitanti della zona. Il tribunale di Bergamo condannò solamente il titolare della ditta Viganò e l’ingegner Santangelo a tre anni di reclusione e 7500 lire di multa. In realtà entrambi scontarono poi solo due anni di carcere e l’ammenda fu revocata. Insomma, nonostante la superficialità generale nella costruzione di un progetto così importante, a pagare le conseguenze furono solo le vittime della tragedia.
E oggi?
I resti della diga non sono mai stati rimossi e, maestosi, e sovrastano la valle. Un percorso di trekking piuttosto semplice ma molto panoramico parte da Pianezza (frazione di Vilminore di Scalve) e permette, in poco più di un’ora, di giungere ad ammirare un luogo dove la natura ha decisamente vinto sull’uomo.
Per chi poi volesse approfondire la vicenda, a Vilminore si trova un centro espositivo dedicato, che funge da archivio e permette di comprendere il legame esistente ancora oggi tra la diga e la Val di Scalve. Perché anche se il disastro del primo dicembre 1923 è ormai un ricordo lontano, i resti della diga sono sempre lì, sotto il monte Gleno, e non permettono di dimenticare.
Eterna indecisa e vagabonda, mi sono laureata in Lingue e poi in Economia, studiando tra Italia, Spagna e Francia. Ora divido le mie energie tra il lavoro in ambito export, Hermes Magazine e il mio blog The Worldwide Journal. Oltre a scrivere e organizzare compulsivamente viaggi e gite, leggo parecchio. Ho un debole per i soffitti affrescati, l’est del mondo e i cactus.