Fonti foto: Blogston Globe & Wikipedia
“Maybe you were the ocean, when I was just a stone.”
“Black flies” è stata la prima canzone a spingermi a comprare il biglietto per un concerto, ed è stata anche l’unica che non ho ascoltato quella notte. Era il 3 luglio 2018, in uno di quegli antichi anfiteatri romani situati alle pendici del belvedere di Lione, in Francia. Mi ricordo quel giorno come se fosse il 3 luglio di ogni anno. A volte, quando sono tra il sonno e la veglia, o bevo un po’ oltre il limite consentito dal mio organismo, commetto questa piccola défaillance temporale. Ero di ritorno da una delle mie lunghe avventure all’estero, di lì a qualche giorno avrei tenuto uno dei miei ultimi esami universitari a Napoli, ma qualche settimana prima avevo letto che il mio artista preferito, per la sua tournée, avrebbe fatto tappa a pochi chilometri da dove io avrei preso l’aereo per tornare a casa. Quindi avevo prenotato subito un biglietto, preso una stanza in un albergo in centro a Lione e ho aspettato, da solo, il momento tanto atteso. A nulla servirono le urla dagli antichi spalti in pietra dell’anfiteatro. Ben Howard non mi sentì, soffocata com’era la mia richiesta dalla concitazione degli altri presenti. “Ben, please, play ‘Black flies’. I am here just for that!” Ma niente da fare, non mi sentì. Questo potrà sembrarvi già la fine, l’epilogo di una banale e breve storia di mancanze e di rimpianti, ma in realtà non è che l’inizio.
La canzone fa parte dell’album “Every Kingdom”, pubblicato nel settembre 2011. Si tratta del primo “album in studio” realizzato dal cantautore inglese, originario del Devonshire, che l’anno successivo ha anche ricevuto una nomination per il “Mercury Prize”. Benjamin John Howard nasce a Londra il 24 aprile 1987; dopo una breve formazione come giornalista, a seguito di alcuni piccoli successi, a partire dal 2008 decide di dedicarsi interamente alla musica. Figlio di quella nuova generazione che rivolge ancora l’orecchio ai fasti del passato, Howard riesce ad assorbire l’eredità del folk lasciata da artisti come Bert Jansch, John Martyn e Nick Drake plasmando una materia musicale inedita, arrivando finanche a rinnovare il fascino del fingerpicking. In questo album eclettico, il cantautore londinese rivive diverse esperienze arricchendole con piccole ma incisive influenze di blues e jazz, attingendo anche a elementi meno nobili del pop, surf e beat. Una musica versatile permea “Every Kingdom”, alternando momenti fragili a quelli più irruenti, lasciando spazio anche a ballate dallo stile icastico e asciutto. Un’anima musicale ben definita e consapevole della propria identità attraversa ogni singola canzone, carezzando e piluccando vari generi che hanno fatto la Storia.
Black flies
“Black flies on the windowsill / that we are / that we are / that we are to know / winter stole summer’s thrill / and the river’s cracked and cold.”
Il significato del titolo viene subito affrontato, fin dai primi versi, attraverso un intrico di allegorie tanto potenti quanto enigmatiche, con le quali si può cadere facilmente in considerazioni affrettate e – forse – fallaci. “Mosche nere sul davanzale della finestra” suggeriscono l’arrivo dell’inverno, “che ha rubato il brivido dell’estate / e il fiume è rotto e freddo”. Insetti piccoli, veloci e agili, accostati spesso a un fastidio pruriginoso, ora giacciono sul davanzale della finestra, privi di vita. Il freddo dell’aspra stagione li ha richiamati al ciclo equanime e naturale della vita che cova dentro di sé un principio di morte. I versi successivi sembrano corroborare l’angoscia che porta questo cambiamento: “Vedere il cielo è la terra di nessuno / un pennacchio oscuro per restare / spero che qui abbia bisogno di una mano umile / non una volpe trovata al tuo posto”, e un senso di depressione incipiente verrebbe corroborata dal freddo invernale.
“No man is an island, this I know / but can’t you see or…”
Dopo c’è esitazione, e un dubbio si insinua: “Nessun uomo è un’isola, questo lo so / ma non riesci a vedere o…”, si staglia un contrappunto che potrebbe essere la sua rivelazione. “Il conforto è venuto contro la mia volontà / e ogni storia deve invecchiare”, e l’autore mostra la sua vera natura.
“Still I’ll be a traveller / a gypsy’s reins to face / but the road is wearier / with that fool found in your place.”
Con l’animo di un viaggiatore che ha il peso di una perdita e di un addio, deve salutare una cara persona. Mesto, lamenta un vuoto ivano sostituito.
“E non voglio chiederti scusa
e non voglio chiederti perché
ma se dovessi andare per la mia strada
dovrei passarti vicino?”
“E non voglio chiederti scusa
e non voglio chiederti perché
ma se dovessi andare per la mia strada
dovrei passarti accanto?”
Il desiderio di un ritorno è insistente, benché rifiutato. E di nuovo quella domanda emerge:
“Nessun uomo è un’isola, questo lo so
ma non riesci a vedere o…
O forse eri l’oceano, quando io ero solo una pietra.”
Mi sono laureato in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Napoli \”Federico II\” e in seguito ho realizzato varie esperienze di studio e di lavoro all’estero (Egitto, Francia, Spagna). Tornato in italia, ho inizato a specializzarmi nel settore della scrittura e dell’editoria. Dopo aver collaborato per un breve periodo con la casa editrice Einaudi, mi sono trasferito a Parigi, dove vivo tutt’ora. Al momento collaboro con la casa Editrice Italo Svevo Edizioni in qualità di Responsabile di progetti di coedizione internazionale, occupandomi di curare i rapporti con alcune case editrici francesi e di altri paesi europei ed extraeuropei. A partire dal mese di settembre 2020 scrivo per Hermes Magazine, di cui sono anche responsabile della sezione libri.