Sanremo 2001 era esattamente vent’anni fa. A pensarci, se ascoltiamo il brano che vinse quell’anno, ovvero Luce di Elisa, sembra davvero ieri. Non si sente un sound remoto. Partiva il nuovo millennio, vinceva quel brano, e ancora quando lo sentiamo alle radio, ci suona come una novità. Sono i grandi misteri di questo millennio, dove sembra che il passato e il presente si siano uniti.
Ma se pensiamo che quel Sanremo lo presentava Raffaella Carrà iniziamo a prendere coscienza che il tempo è passato. Perché oggi la televisione è cambiata. In quell’edizione di Sanremo c’era ancora un forte eco degli anni novanta. Anche se, nonostante i vent’anni, non ne sentiamo ancora l’odore antico. La cosa che mi stupisce di quei tempi, dunque, è che a Sanremo che un pezzo meritevole come quello di Elisa potesse vincere. E dire che si trattava del primo brano in italiano della cantante triestina. Gli anni novanta degli album come Pipes and flowers, dove si trovavano brani bellissimi come Labyrinth o Sleeping in your hand, lasciavano il posto allo stupore del “pensavo fosse una cantante inglese invece è italiana”. Succedeva spesso all’epoca, era il solito gioco mediatico.
Ma lei lo fece con un brano in italiano, rielaborato da Zucchero, che immediatamente vinse Sanremo. Un brano che inizia con un canto in risonanza. Quasi un vocalizzo sacro, o un overtone singing, dopodiché la voce flautata di Elisa che inizia a dire “Parlami, come il vento tra gli alberi, come il cielo con la sua terra”. Un testo da cui traspare il bisogno di una donna di ascoltare una voce sincera. Di sentirsi capita. Un brano che, a mio parere, richiama fortemente la necessità di empatia.
Questo è interessante, perché con il 2000 sono iniziati i tempi della lontananza. E già all’epoca si sentiva quella distanza, quel comunicare tra macchine, quella solitudine. Elisa chiede un ritorno a una comunicazione naturale, non artificiosa. Una spontaneità. Chiede il ritorno alla vita. Chissà cosa intendeva con quei tramonti a nord est.
Ma è ancora più diretto il finale dove Elisa ripete “ascoltami” per diverse volte, fino ad arrivare all’ultima parola che è “ascoltati“. Forse solo così ci si può capire, mentre invece siamo distratti dalla nostra immagine, il nostro rispecchiamento che si frappone tra noi e gli altri come un muro. Ci sentiamo protetti, ma in realtà siamo solo custoditi come in una trappola. E questo Elisa lo esprime chiaramente nel brano.
Di solito a Sanremo vincono i mediocri e arrivano ultimi i migliori. Forse quell’anno si è trattato di un’eccezione. Mi viene anche da pensare che per Elisa non si potesse pensare esordio migliore come cantante italiana. Certo, forse i brani dei primi due album facevano trasparire una cantante più misteriosa, dalla voce tecnicamente superlativa, con sfumature lievemente grunge, altre un po’ new wave, con quella patina pop, quell’aria da ragazzina un po’ snob.
Poi con Luce lo stile cambia, ma finalmente arriva al grande pubblico mostrando il suo vero volto. Perdendo di mistero, ma diventando qualcuno. Come quel ricordo che ho di quel concerto del primo maggio all’epoca, in cui Elisa cantava i Velvet underground e io mi innamoravo. Con quell’aria così intelligente, quei piedi scalzi che camminavano sul palco dell’Ariston come fosse in un bosco. La promessa di un nuovo modello femminile, per il nuovo millennio, ma soprattutto di talento, vero e indiscutibile.
Luca Atzori, laureato in filosofia, ex direttore artistico del Teatro Piccolo Piccolo, Garabato e membro fondatore del Mad Pride di Torino. Drammaturgo, attore, poeta, cantautore. Autore dei libr: Un uomo dagli occhi rotti (Rizomi 2015) Gli Aberranti (Anankelab 2019), Teorema della stupidità (Esemble 2019) Vangelo degli infami (Eretica 2020) e dei dischi Chi si addormenta da solo lenzuola da solo (2017), Mama Roque de Barriera (2019) Insekten (2020) Iperrealismo magico (2020) Almagesto (2021).