De Vulgaris Profundis: le parolacce e molto altro nelle grandi opere letterarie (Pt2)


Fonte foto: Ritratto di Dante – Signorelli (vivi it – vivi italiano)

Bentornati cari lettori di Hermes Magazine alla nuova affascinate lettura della nostra seconda Pasticcotta Letteraria per il mese di Aprile. Continuiamo il nostro tortuoso ed infausto viaggio nelle opere, operette e operone, che utilizzano una terminologia non consona a quella che di solito siamo abituati a leggere sui libri di scuola. Poeti e scrittori che hanno fatto la storia del dolce stil novo, si sono comunque lasciati andare a plateali dimostrazioni di quanto il parlar volgare non è solo una costante dei rapper del nostro tempo. E oggi facciamo il botto, con i due poeti, forse piu amati ed odiati del nostro Paese.

Intorno al 1300 è la volta di Dante (del quale vista la ricorrenza della sua salita al paradiso in modo non solo letterale, abbiamo parlato tantissimo, in questo periodo), seguito dal caro Giovanni Boccaccio, che nel suo Decameron si cimenta in versi davvero “poetici” come:

«Col malanno possa egli essere oggimai, se tu dei stare al fracidume delle parole di un mercantuzzo di feccia d’asino, che venutici di contado e usciti delle troiate, vestiti di romagnuolo, con le calze a campanile e con la penna in culo, come egli hanno tre soldi, vogliono le figliuole de’ gentili uomini e delle buone donne per moglie.»

Ma fermiamoci a Dante, il “sommo”, il poeta per eccellenza che si studia nelle scuole con la sua  Divina commedia. Il canto XVII dell’Inferno, descrive così Taide: una prostituta nella bolgia dei seduttori «sozza e scapigliata» «puttana (….) che là si graffia con le unghie merdose», perché si affondava le unghie sporche di sterco nelle cosce. Rivolgendosi poi al suo amate, Alessio Inteminei, Dante gli dedica queste dulcis- volgar parole «E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, vidi un col capo sì di merda lordo, che non parëa s’era laico o cherco».

Sempre nell’Inferno, ritroviamo il famoso verso, dove un diavolo con disturbi intestinali si lascia scappare una puzzetta che fa muovere le farfalle all’equatore dei giorni nostri, peggio di un tornado americano:

«Per l’argine sinistro volta dienno; ma prima avea ciascun la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno; ed elli avea del cul fatto trombetta».

Qualche libro dopo sempre il nostro caro Durante, decide di sproloquiare un ode alla cacca, che neppure Leopardi con “A Silvia” era riuscito a renderla cosi poetica.

 «Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com’ io vidi un, così non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla. Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e ’l tristo sacco che  merda fa di quel che si trangugia».

Anche se nonostante la poetica e la dialettica utilizzata, la cacca è un simbolo ricorrente di ingodigia e avdità presente anche in testi molto piu antichi, come quelli di Aristofane.

Il tema è sempre piaciuto assai, tanto che nel Seicento il letterato Tommaso Stigliani che per la nostra felicità, scrive Merdeide, un poema antispagnolo che recava come sottotitolo: Stanze in lode delli stronzi della Real Villa di Madrid. Apparve già da subito molto esplicito, sia nel titolo che dall’incipit che recita cosi:

«D’una Villa Real i sporchi umori / Gran desio di catar m’ingombra il petto, / E come in vece di purgati odori / V’han li stronzi, e la merda albergo e letto». E finisce con altrettanta chiarezza: «E tu Villa real, fregio, e decoro / De l’Ibero terren, Donna del Mondo, / Già che rinchiudi in te si bel tesoro, / Tù non cadrai nel cieco oblio nel fondo / Muta nome per Dio, che più sonoro / Sarà il tuo vanto fetido & immondo, / E dì, pe i stronzi si famosi, e belli / Merdid ogn’un, no più Madrid, m’appelli»

Citiamo il tutto nell’edizione canonica che comprende anche anche, uno scritto molto interessanta in cui Fillide vien baciata da Filleno, e questa per dolcezza e per l’emozione si lasciò scappare una scoreggia catatonica.

Si potrebbe continuare con Pietro Arentino che a leggerlo pare un profluvio di ode agli organi sessuali maschili e femminili, oppure Giorgio Baffo, che scandalizzò la Venezia del Settecento con una continua ode alla “mona”, che tanto bene fa perché:

Notte e zorno ti fa miracoloni, / che l’acqua, che trà su la to fontana, / dà vita al cazzo, e spirito ai cogioni»

Si potrebbe continuare con Shakespeare, Hugo e Baudelaire fino a Céline, Artaud e Prévert (senza considerare i nostri autori italiani del secolo scorso) ma sto articolo mi verrebbe censurato alla revisione. Carlo Porta, che era una spanna piu’ avanti già nell’ottocento appurava pero’ che qualsiasi linguaggio può esser bello o brutto a seconda di chi lo usa.

Insomma, per concludere, sappiate che “volgari” non sono mai le parole stesse. Possono esserlo, ma dipende dalla maestria, l’intelligenza, la capacità di farne poesia e la cultura di chi le usa e sopratutto ne scrive.

Alla prossima!