1 Novembre 1970: esce “La Buona Novella”, il Vangelo secondo De André

Compie 50 anni il capolavoro indiscusso di Fabrizio De AndréLa Buona Novella”.

 

In un momento storico invaso da forti cambiamenti sociali, in piena rivoluzione studentesca, De André nel 1969 concepiva su questa struttura quello che sarà ricordato come uno degli album più belli e significativi della storia della musica italiana. Attraverso l’analisi dei Vangeli Apocrifi (I vangeli non riconosciuti dal Vaticano) De André crea un’allegoria, ricompone una delle testimonianze più arcaiche e complesse, cercando di delineare un lato del tutto (e solamente) umano del Cristo, Figlio di Dio, della Maria Vergine, di San Giuseppe e i due ladroni, figure disumanizzate e descritte dai Vangeli Canonici come cariche di spiritualità. “Il divino non lascia spazio all’umano”: è questo che De André ha cercato di correggere attraverso il concept album di dieci tracce. Attraverso i Vangeli apocrifi, il cantautore crea l’intera trama del disco, rivoluzionando la figura storica di Gesù di Nazareth.

 

Ascoltiamo una magnifica introduzione Laudate Dominum che ci apre a L’Infanzia di Maria: la bambina vive una difficile infanzia segregata nel tempio dall’età di tre anni (“dicono fosse un angelo a raccontarti le ore, a misurarti il tempo fra cibo e Signore”); all’arrivo delle prime mestruazioni (“ma per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio, la tua verginità che si tingeva di rosso”) viene allontanata dal tempio e forzata a sposarsi; il matrimonio avviene con un uomo buono ma vecchio, il falegname Giuseppe (“la diedero in sposa a dita troppo secche per chiudersi su una rosa”) che la sposa e poco dopo la lascia per quattro anni, costretto ad abbandonare la Giudea per lavoro.

 

Ne Il ritorno di Giuseppe ascoltiamo la fatica del vecchio Giuseppe (“Ai tuoi occhi, il deserto una distesa di segatura, minuscoli frammenti della fatica della natura”); nel suo ritorno a casa porta una bambola per Maria, e la trova implorante d’affetto e attenzione (“E lei volò fra le tue braccia come una rondine e le sue dita come lacrime dal tuo ciglio alla gola suggerivano al viso una volta ignorato la tenerezza d’un sorriso, un affetto quasi implorato”); abbracciandola Giuseppe si accorge che Maria è incinta (“… si colmarono ai fianchi della forma precisa, d’una vita recente di quel segreto che si svela quando lievita il ventre”) e svela a Giuseppe il suo sogno.

 

Il sogno di Maria ci riporta alla stessa scena nel tempio: In un sogno l’angelo che usava farle visita la porta in volo lontano “là dove il giorno si perde”; lì le dà la notizia della futura nascita di un bimbo; il testo allude ad un concepimento più terreno (“…e lui parlò come quando si prega ed alla fine d’ogni preghiera, contava una vertebra della mia schiena”). Al risveglio Maria capisce di essere incinta (“parole confuse nella mia mente, svanite in un sogno ma impresse nel ventre”) e si scioglie in pianto.

 

La maternità inaspettata si riflette in Ave Maria, un omaggio alla donna nel momento del concepimento (“ave alle donne come te Maria, femmine un giorno e poi madri per sempre”).

 

Continuando l’ascolto si percepisce l’efficace passaggio dalla beatitudine espressa in Ave Maria allo strazio in Maria nella bottega d’un falegname: il ritmo dato dalla pialla e dal martello scandiscono il dolore del falegname che costruisce la croce (“tre croci, due per chi disertò per rubare, la più grande per chi guerra insegnò a disertare”) con la quale il figlio di Maria ed i due ladroni verranno crocifissi.

 

In tutte le tracce Cristo viene raccontato attraverso la storia delle altre figure bibliche mentre in Via della croce appare direttamente come protagonista. Qui De André lascia trapelare il suo pensiero anarchico (“il potere vestito d’umana sembianza ormai ti considera morto abbastanza”).

 

Dopo la crocifissione dei tre, le Tre Madri stanno adagiate sotto le croci. Le due donne dicono a Maria che non ha alcuna ragione di piangere così “forte”, dal momento che sa che suo figlio, al contrario dei loro, risorgerà (“Lascia noi piangere, un po’ più forte chi non risorgerà più dalla morte”). La canzone si conclude con le parole di Maria (“non fossi stato figlio di Dio, t’avrei ancora per figlio mio”).

 

Nella nona traccia, forse la più significativa, Il Testamento di Tito, i dieci Comandamenti vengono scomposti e analizzati uno ad uno dal punto di vista di Tito, il ladrone crocifisso alla destra di Cristo e pentito prima di morire. Tito ripete uno ad uno i Comandamenti interpretandoli nel senso più umano e terreno possibile (“Non avrai altro Dio all’infuori di me: spesso mi ha fatto pensare, genti diverse venute dall’est dicevan che in fondo era uguale, credevano a un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male”). Tito, dettando e dopo scomponendo ogni comandamento, trova una falla in ognuno di questi, scandendo nelle sue parole la speranza che l’amore e l’empatia non saranno mai considerate peccato (“Io nel veder quest’uomo che muore, madre io provo dolore, nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l’amore”). Citando Fabrizio De André “Il testamento di Tito” è la mia miglior canzone. Dà un’idea di come potrebbero cambiare le leggi se fossero scritte da chi il potere non ce l’ha. È un altro di quei pezzi scritti col cuore, senza paura di apparire retorici, che riesco a cantare ancora oggi, senza stancarmene”.

 

L’opera termina col canto liturgico Laudate hominem che invita a lodare l’uomo, e non in quanto figlio di un dio, ma in quanto figlio di un altro uomo.

 

50 anni fa De André ci ha donato, attraverso la sua classica tecnica della “testimonianza di altri”, un forte insegnamento carico di significati. Ciò che viene colto è che l’unica cosa che ci unisce è l’essere uomini che condividono la medesima Terra e, sulla base di questo, nessuna differenza dovrebbe essere mai così grande da distruggere l’amore. Quale testimone migliore di Gesù, forse il più celebre tra i ribelli, e assassinato per questo, che predicava le medesime parole 2000 anni fa.