“E dimmi: lo sai, tu, cos’è l’amore?”
Così esordisce l’incipit di Vipera, il noto libro di Maurizio De Giovanni nel quale, chi parla, si rivolge ironicamente alla propria amata essendo certo che lei, a causa del mestiere che pratica, non ha idea di cosa significhi tale parola.
“… Non nasce e muore in posti come questo, con la musica di un pianoforte al piano di sotto e nell’odore dei disinfettanti.”
Conclude con dire dispregiativo e porta a termine il suo atto in una stanza del Paradiso, una casa di tolleranza di Napoli ubicata in un tratto di strada tra via Toledo e via Chiaia. Questo breve scorcio narrativo, pur rappresentando un mondo apparentemente conosciuto da tutti, in realtà, nella sua superficialità, non fa altro che dimostrare l’erroneità e l’ipocrisia del pensare comune.
La vita delle prostitute sembra semplice da descrivere, tutti credono di avere bene in mente il giusto archetipo del mestiere più antico del mondo. Chi guarda da fuori quel mondo scabroso e sporco, passandoci velocemente accanto con uno sguardo indignato ma fisso sugli architravi, le porte e le finestre allo scopo di soddisfare una pruriginosa ma inconfessabile curiosità, non si ferma neppure a pensare a cosa ci sia realmente là dentro, oltre alle scale, all’androne e alle stanze, in quei corpi usati e abusati, svuotati fino all’ultimo anelito di speranza per la vita. Alla fine della giornata, quelle vite sono ancora vive, ma a quale prezzo?
È questo che De Giovanni intende trasmettere al lettore, sia pure sotto forma di cornice ad una storia di crimini. Perché è un giallo che l’autore vuole scrivere, ma la sua lungimiranza e bravura gli consentono di andare oltre il genere e di raccontare un pezzo di storia di una città dell’epoca fascista in bilico tra l’amore e l’oblio, la voce di persone che sono sempre biasimate con l’infamia, ma poi vengono ricordate con simpatia quando, all’ombra degli occhi altrui, qualcuno ha bisogno di svuotare la propria natura primordiale.
Annamaria Cennamo, in arte Vipera, è una dei protagonisti della storia. Però è la prima a lasciare la scena, perché viene ammazzata. Ciononostante, la sua voce ripercorre tutte le pagine del libro e viene ricordata dagli altri personaggi: Dal commissario Ricciardi, in quanto vittima; da altri uomini, e non solo, in quanto oggetto di passioni effimere e di sentimenti conservati nel ricordo di qualcosa che non esiste più. Vipera, una prostituta, viene invidiata, odiata, desiderata, ma anche amata. Lei, che era considerata la più bella di Napoli. Perché forse è vero, nelle case di tolleranza non esiste amore, ma chi le abita e le anima appartiene alla razza umana alla stregua di tutti quelli che vivono fuori da quel mondo, e in quanto tale è capace di amare e di essere amato.
Chi invece si indigna sinceramente e senza riserve dinanzi a quelle mura esterne che non ha mai varcato, non riesce nemmeno a concepirne la vera essenza. Attraverso le sue descrizioni, il libro ci permette di entrare con i personaggi in quei tuguri dell’anima. A questi edifici fatiscenti “ci si arrivava mediante scalinate ripide e buie, una stanza con un tavolino dietro cui sedeva una donna, una cassetta con un catenaccio per custodire i soldi. Lungo le mura, delle panche di legno, sulle quali si accomodavano in silenzio – lo sguardo nel vuoto e poca voglia di chiacchierare – operai, soldati, studenti. Una scala portava alle camere, dov’erano le ragazze che spesso ragazze non erano affatto”.
In effetti, là dentro non c’erano soltanto giovani e illibate fanciulle, ma anche donne segnate dal tempo e dal lavoro, e tutte loro, nessuna esclusa, subiva ordini e soprusi, violenze e offese, senza tener conto del biasimo morale di coloro che, pochi istanti prima, erano stati intrattenuti e una volta fuori dimenticavano tutto. Il Paradiso, come ogni altro bordello di lusso, si distingueva dagli altri quanto a eleganza e arredamenti, “i corridoi adorni di sedie dallo schienale dorato e foderate di raso, una specchiera dalla cornice elaborata e seta rossa alle pareti”, ma la sostanza non cambiava. Una volta arrivati a destinazione, iniziava l’imbonimento forzato della merce vivente. “Lo vedete quel passaggio là in alto con la ringhiera?” Chiede Lily, una delle prostitute a cui gli agenti si rivolgono per raccogliere informazioni e investigare, “Noi lo chiamiamo il balcone. Quando finiamo di lavorare con un cliente, ci siamo lavate e abbiamo messo a posto la stanza, ci affacciamo da là e ci facciamo vedere, così i clienti che aspettano qua in sala capiscono che siamo libere e ci possono scegliere. Quella che gli piace di più”. Concludendo, la donna deve subire una smorfia di ironia apparsa sul volto di uno degli agenti alle spalle del commissario.
In fondo al salone, su una pedana, campeggia una sorta di trono dove Madame Yvonne, la proprietaria dell’esercizio, accoglie i clienti; alle spalle della scrivania, attaccato al muro, appare un cartello con le tariffe:
Semplice £ 2,50
Doppia £ 3,50
½ ora £ 6
1 ora £ 10
Supplemento sapone e asciugamano £ 1
Saponetta cent. 10
Acqua di colonia cent. 25
Ma in questi posti, non tutte erano per tutti. C’era chi, come Vipera – la star, per usare un termine moderno – era di pochi, di coloro che erano disposti a pagare di più per avere il privilegio della sua compagnia. Perché, in fondo, una volta abbandonato quel posto, non tutti dimenticavano. Qualcuno si affezionava, creava irrazionalmente un legame più forte con uno di quei corpi, e c’era anche chi, durante quei preziosi momenti pagati, non andava oltre le parole. Forse era amore, forse un amore sbagliato, ma qualcuno vi rimaneva incastrato e testimoniava un’umanità latente che camminava a fatica tra i corridoi, le scale, le stanze.
Quando, il 20 febbraio 1958, la legge Merlin decretò ufficialmente la cessazione dell’attività delle case chiuse, negli anni a venire venti nostalgici di protesta avanzarono proposte di riapertura.
La prostituzione oggi
Oggi il termine \”sex work\” indica l’intera categoria dei lavoratori sessuali. Recentemente, questa definizione è entrata a far parte del linguaggio comune in quanto ritenuta meno stigmatizzante e più inclusiva: essa infatti non si riferisce soltanto alla prostituzione classica, ma a una serie di attività legate alla sessualità e all’erotismo regolarmente retribuite. Il tema è attualissimo e di difficile gestione ed ha acceso il dibattito -finalmente- sulle evidenti divergenze tra la mercificazione del corpo e l’uso consapevole dello stesso.
Offrire prestazioni sessuali a pagamento rientra nella sfera della libera scelta o è sempre e solo sfruttamento mal camuffato?
Per fare chiarezza, è necessario innanzitutto distinguere tra lo sfruttamento della prostituzione – sempre da condannare – e gli altri tipi di operatori sessuali.
Il lenocinio consiste nel guadagnare illecitamente denaro ai danni delle classi sociali in difficoltà, costringendo soggetti psicologicamente ed economicamente deboli a prostituirsi forzatamente. Questo modus operandi costituisce un grave reato a cui bisogna opporsi con tenacia, soprattutto quando vengono coinvolti minori che, ignari di ciò che li aspetta, si ritrovano in un inferno senza via d’uscita. Ciò non ha niente a che fare con chi decide, praticando il principio di autodeterminazione, di vendere prestazioni sessuali.
I sex worker fanno parte di quest’ultimo gruppo: sono semplicemente persone che hanno scelto di lavorare nell’ambito dell’erotismo. Tra di essi troviamo Cam girls, escort, operatori di chat e linee hot.
Ma cosa dice la legge in proposito?
In Europa, la legislazione varia da stato a stato e in alcuni di Paesi la prostituzione è stata regolamentata e legalizzata. In Italia, invece, il favoreggiamento e lo sfruttamento della stessa sono illegali. È illegale, inoltre, adibire luoghi chiusi a bordelli o case del sesso. La prostituzione di per sé è tollerata dal sistema giudiziario, purché l’adescamento non avvenga pubblicamente. Le prostitute, tuttavia, godono di cattiva fama e l’influenza fortemente cattolica del nostro paese, esaspera il pregiudizio. Le operatrici e gli operatori sessuali, subiscono l’idea favoleggiante della Maddalena che vorrebbe redimersi. In particolare, le donne che lavorano in questo settore, vengono dipinte come femmine vogliose che vivono nel peccato: un pregiudizio grossolano e cattivo, che danneggia sia chi fa questo lavoro per scelta e vive serenamente la propria sessualità.
È ingiusto additare chi liberamente sceglie di offrire prestazioni sessuali, decidendo di interpretare il concetto di \”libertà individuale\” come pieno potere sul proprio corpo.
È sempre stato così?
Già nel codice di Hammurabi si trovano le prime disposizioni riguardo i diritti delle prostitute e, a seguire, nell’antica Grecia prima e nell’antica Roma dopo, prostituirsi era ritenuto legale ed era considerato un atto religioso di sacrificio. La prostituzione non era un crimine, anche se gli schiavi, cioè coloro che la praticavano, vivevano in una condizione di emarginazione e venivano etichettati come infames, perdendo una serie di diritti, inclusa la facoltà di testimoniare di fronte a un giudice. Subivano l’esclusione da ogni carica politica e dovevano rinunciare alla partecipazione ad organi assembleari. L’emarginazione di chi si prostituiva creava una macchia indelebile, una sorta di condanna, destinata a protrarsi anche dopo la morte, fino al proiettarsi sui figli, che venivano esclusi a loro volta, dalle diverse cariche sociali e politiche.
I romani più ricchi ricevevano le prostitute in casa, ma vi erano anche locali per gli avventori, o per un ceto meno abbiente. Tali locali presero il nome di lupanari, dal latino lupa che significa prostituta. La prostituzione maschile era frequente come quella femminile, ma era malvista, nel suo interno, la passività sessuale.
Il lupanare era un’istituzione sociale tesa a soddisfare le molteplici tendenze della sfera sessuale dei romani con assoluta e totale tolleranza ed è per questo motivo che si trovavano anche i lupanari per gli omosessuali dove si recavano schiavi e gladiatori. I lupanari erano per lo più concentrati nella Suburra, abitata dalla plebe, o nei luoghi circostanti il Circo Massimo, allineati uno accanto all’altro. Erano tutti personalizzati da una particolare lanterna e dagli organi maschili scolpiti, ben visibili, mentre gli interni erano caratterizzati da un desolante squallore, da un ambiente sporco e saturo di fumo delle lanterne.
Le prostitute erano schiave, spesso importate dall’estero, rapite, comprate, vendute. I compensi per le loro prestazioni venivano incassati dai proprietari dei lupanari. Fu imposto il divieto d’introdurre all’interno di questi ultimi, monete con l’effige imperiale e, intorno al I secolo d.C. (tra la fine del regno di Augusto e quello di Tiberio), furono battute apposite monete che presero il nome di spintria. Più precisamente si trattava di tesserae eroticae, con le quali era possibile pagare.
La prostituzione era considerata una fonte di reddito, infatti l’Imperatore Caligola aveva imposto una tassa su tali guadagni anche se non si ha la certezza che tale tassazione fosse calcolata sul guadagno mensile o giornaliero. Probabilmente il provvedimento fiscale di Caligola è stato abolito da Claudio.
Le lupe che esercitavano nei postriboli si proteggevano dai rapporti promiscui: all’entrata del lupanare si potevano acquistare i profilattici usati poi dai clienti. Erano creati con intestini essiccati di pecora e dopo l’uso, lo si lavava e poi lo si riutilizzava. I motivi del camuffarsi sono da ricondurre al fatto che la prostituzione a Roma, come d’altronde in tutto il mondo romano, seppur molto diffusa, era comunque considerata infamante, lo abbiamo già detto, al pari del mestiere di attore o di chi praticava l’usura ed è per questo che qualche patrizio preferiva non farsi riconoscere: in questo caso si serviva di una parrucca e si copriva il volto con una maschera.
Il lupanare di Pompei
Un esempio ancora ammirabile di lupanare è quello che è stato rinvenuto a Pompei. Questo attira attualmente l’attenzione di molti visitatori i quali, ammirando gli ambienti, vengono a diretta conoscenza della vita erotica di nobili patrizi, uomini giovani e non, dell’antica epoca romana. Nel 2006, dopo un accurato e intenso lavoro di restauro che ha interessato i complessi architettonici e gli apparati decorativi, è stato riaperto al pubblico ed è considerato il più importante dei numerosi bordelli di Pompei, l’unico in città, costruito con l’esclusiva finalità di offrire sesso a pagamento. Rappresentava dunque il luogo del piacere erotico trasgressivo, una vera e propria casa d’appuntamento, quella che noi oggi chiamiamo comunemente “casa a luci rosse”.
Il lupanare di Pompei è un piccolo edificio che si trova all’incrocio di due strade secondarie ed era costituito da un piano terra e un primo piano. Al piano terra si accedeva da due ingressi separati: il primo si trovava nel cosiddetto “Vicolo del Lupanare” il secondo, comodo per chi arrivava dal Foro, si trovava al vicolo sud-ovest. Entrambi gli ingressi conducevano in una specie di saletta centrale, intorno alla quale si aprivano cinque cellae meretriciae con i letti in muratura. Le pareti delle celle erano intonacate di bianco e quasi completamente coperte da graffiti incisi sia dagli avventori che dalle ragazze che vi lavoravano. I graffiti è certo che sono posteriori al 72 d.C. perchè comprovato dal ritrovamento dell’impronta lasciata da una moneta sull’intonaco fresco.
Le pareti della saletta centrale erano decorate con riquadri e ghirlande stilizzate su fondo bianco, ma al disopra delle porte d’ingresso alle celle, erano sistemate, come fregio, una serie di pitture murali erotiche che, probabilmente, costituivano una specie di catalogo circa le possibili prestazioni che le prostitute potevano offrire al cliente, oppure, più verosimilmente si trattava di immagini tratte da uno schemato veneris, uno dei manuali illustrati dell’arte amatoria scritti nel III-IV secolo a.C. dalle poetesse di Samo Philainis ed Elephantis. In questo stesso bordello sono stati ritrovati numerosi graffiti ricchi di commenti e nomi che hanno reso possibile l’identificazione di almeno 80 prostitute e clienti. Erano indicate anche le preferenze, o in taluni casi le malattie da contagio diffuse.
Al piano superiore si poteva accedere tramite una scaletta posta nella stradina che scendeva dal Foro. La scala conduceva in una specie di corridoio esterno che permetteva l’accesso ad altre cinque stanze che presentavano una decorazione più ricercata, prive però di scene erotiche e sicuramente riservate ad una clientela di rango più elevato.
Il lupanare, trovandosi all’incrocio tra due strade secondarie, non è proprio facilissimo da individuare ma non disperate, mettetevi nei panni di un antico pompeiano e fate come lui, seguite i falli incisi sul basolato o su alcune pietre inserite sulle facciate delle case. Non esistendo Internet all’epoca i giudizi dei clienti sulla prestazione ricevuta non venivano affidati ai siti di recensioni on line, ma incisi direttamente sui muri: ne sono stati trovati circa 120.
Le case chiuse nel cinema
“Arrangiatevi”, un film del 1959 diretto da Mauro Bolognini che vede protagonisti Totò e Peppino, racconta in modo davvero consapevole la sorte che toccò a quelle case ormai dismesse e a chi vi sarebbe andato ad abitare in seguito.
Ambientato nella Roma del Dopoguerra, il film parla della famiglia di Peppino Armentano, di professione callista, che dopo una serie di rocambolesche vicende riesce a trovare un nuovo appartamento dove trasferirsi grazie all’aiuto di un trafficone, lasciando così il vecchio appartamento tenuto in coabitazione con una famiglia istriana con la quale aveva avuto diversi conflitti. Tuttavia, con il passare del tempo, la famiglia scoprirà che in realtà si sono trasferiti in quello che, fino a qualche anno prima, era una delle case di tolleranza più famose della capitale.
Il padre di famiglia, che era consapevole di questa notizia, aveva tentato in tutti i modi di nascondere il segreto alla moglie e ai figli, ma le derisioni e le battute lasciate dai vicini di casa affacciati alla finestra e dai passanti hanno fatto presto trapelare la verità, che è stata accolta con grande vergogna.
In effetti, dopo la chiusura di queste strutture, per i loro proprietari è stato davvero difficile riconvertire quelle stanze in luoghi normali di abitazione perché portavano con sé una reputazione infamante, che si sarebbe riversata su chi vi andasse ad abitare. Tant’è vero che i protagonisti di questa storia sono stati tratti con l’inganno nel palazzo, e addirittura un’associazione era stata creata – ACIECC (Associazione Cittadine Inquilini Ex Case Chiuse) – dalle persone che vi si erano trasferiti in precedenza, al fine di estinguere l’ombra della vergogna da quegli edifici con alcune manovre quali, ad esempio, l’abolizione degli obbrobriosi cimeli che adornavano le stanze e gli androni; il cambiamento del nome delle strade e dei numeri telefonici; la richiesta di una maggiore sorveglianza da parte delle forze di polizia contro gli atti vandalici orditi avverso la struttura.
I curiosi che un tempo frequentavano la casa di tolleranza, accortisi di nuove presenze nell’edificio, hanno subito pensato con gioia ad una riapertura, sia pure clandestina, dell’attività, e senza indugi vi si sono recati cagionando non pochi guai alla famiglia Armentano.
Al di là della parodia del film, alcune riflessioni vanno fatte. Spesso le rappresentazioni cinematografiche e teatrali, nel richiamare un passato ancora recente, tendono ad esprimere un aspetto comico e artistico della vita pulsante nelle case chiuse. Tuttavia non bisogna di certo dimenticare l’aspetto tragico e doloroso di questo fenomeno. La vita che conducevano queste donne era ai margini del rispetto della vita umana: non va dimenticato che erano delle prostitute, sfruttate e abusate, e con ciò, dovevano anche subire il biasimo morale di una società ipocrita. Le persone che frequentavano quei posti erano le stesse che schernivano o, in molti casi, guardavano con diffidenza e vergogna chi abitava quei luoghi. La chiusura di questi ambienti aveva avuto come intento quello di fermare il fenomeno della prostituzione e di tutelare maggiormente chi esercitava tale mestiere. Ancora oggi ci si chiede se tale obiettivo sia stato raggiunto, anche solo parzialmente.
Dalle case di tolleranza alle fiere del sesso
Così come sono sempre esistite le “case a luci rosse”, anche la pornografia ha origini molto antiche. Ovviamente negli ultimi anni questo settore ha subito una strumentalizzazione e una commercializzazione da parte di internet. Le piattaforme digitali hanno sostituito in modo encomiabile i giornaletti e le videocassette nascoste sotto il letto di papà, per dare la colpa a lui di quello che accadeva nella stanzetta di alcuni ragazzetti (e ragazzette) quattordicenni all’insaputa di mamma. E’ successa praticamente la stessa cosa che è capitata alla musica in questi ultimi anni: si è andato sempre di più a digitalizzare e a rendere fruibile il business dell’industria del porno e dell’hard sulle reti telematiche.
Così, per fortuna anche le fiere del sesso sono quasi del tutto scomparse. Un esempio è il Bergamo Sex, che si svolge quasi sempre al Bolgia, una discoteca di Osio Sopra. Aperta a tutti, sia a donne che uomini (purché tutti maggiorenni) è una sorta di rivisitazione teatrale (fatta male) del porno dal vivo.
Alla guida di questo grande carrozzone sexy c’è il signor Fumagalli, che nelle prime edizioni, invitava le conturbanti ragazze a stare zitte e spogliarsi. Insomma una persona molto simpatica probabilmente agli occhi di un pubblico altamente maschilista. Sicuramente il sesso è ben diverso da quello che ci viene presentato in un porno, così come quello che ci viene fruito negli stand del Bergamo Sex, ma è anche importante sottolineare, che per quanto possa sembrare da bacchettoni questo discorso, certe cose andrebbero sperimentate nel proprio intimo, non necessariamente con la pornostar di turno, e non perché sia sbagliato o altro, semplicemente perché la realtà, per come la giri, a 90 o a 360 gradi, è totalmente differente, e forse molto più vera da quello che ci viene appropinquato in questi eventi. Ancora una volta la donna viene strumentalizzata per far divertire una cerchia di persone, che purtroppo non si rende conto che con la propria voglia di sesso, va ad alimentare un settore che probabilmente non dovrebbe esistere.
Riportare dal vivo tutto quello che ci viene proposto in un porno lo rende tangibile, ma non vero. L’arte dell’eros va ben oltre il seno rifatto, le unghie finte e i falli di gomma. Insomma il Bergamo Sex è come proporre la lettura di “Cinquanta Sfumature di Grigio” ad uno che ha letto il “Tropico del Cancro” di Henry Miller: ti ride in faccia.
Amante della scrittura e del cibo. Scrivo da quando ho memoria, mangio più o meno da sempre. Giornalista Pubblicista dal 2017, con la nascita di Hermes Magazine ho realizzato un mio piccolo, grande sogno. Oggi, oltre a dedicarmi a ciò che amo, lavoro in un’agenzia di comunicazione come Social Media Manager.