Abbiamo dovuto aspettare il 13 luglio 1985 per riunire l’anima popolare del rock al popolo.
A Woodstock è stata celebrata l’epoca della droga sesso e rock&roll. Una lunga cavalcata a mille all’ora lontano da tutto ciò che era lo status quo di quell’epoca. Fu un concerto che divise, piuttosto che una presa di coscienza di dove eravamo e cosa stavamo facendo. Ne abbiamo perse di anime, di menti e di amici durante quella corsa forsennata. Abbiamo perso soprattutto lo spirito da cui nasceva il rock. Si è parlato di appropriazione culturale dei bianchi, ma io la immagino il rock come l’esigenza di non volere più un mondo di bianchi e uno di neri. Non nella musica almeno.
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Abbiamo dovuto aspettare 16 anni per risvegliarci, che il sesso e la droga liberi sono belli, ma sono anche il veicolo dell’AIDS, e che il rock non era solo eccesso, ma doveva essere un megafono per un impegno maggiore, unitario, per restituire. Il rock non dava forse la voce agli emarginati? E chi moriva in Etiopia colpita dalla più grande carestia moderna non erano forse gli emarginati senza la forza necessaria per farsi ascoltare?
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Il 13 luglio ci siamo risvegliati da un lungo sonno, dentro due stadi gremiti non per sballarsi ma per dire noi ci siamo. Un filo unisce i 72000 al Wembley Stadium di Londra (Inghilterra) con i 90000 spettatori al John F. Kennedy Stadium di Philadelphia e una ragnatela fatta di satelliti collega due miliardi di telespettatori in 150 paesi.
Nasce così, a furor di popolo e non da un calendario, la giornata mondiale del rock.
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Antonio Di Cesare, classe 68, lavoro nel mondo dell’informatica. Negli anni ’90 pubblico articoli tecnici e di costume sul mondo ‘nerd’ su alcune riviste specializzate. Recentemente riscopro il piacere di scrivere in una dimensione più intima, quasi come strumento terapeutico, per cercare, per chiarire. E per esibire me stesso.