“Don Raffaè” di Fabrizio De Andrè

Fonte foto: Fanpage.it

Un magistrale arpeggio di chitarra con l’ingresso armonioso di trombe, clarinetti e batteria è l’attacco orecchiabile di questa canzone di Fabrizio De Andrè, una delle tante belle canzoni del cantautore genovese che spesso nominiamo nei nostri articoli.

Don Raffaè è un brano espresso in dialetto napoletano, che non è nuovo come espediente nello stile di De Andrè, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe da un genovese e sembra quasi uno scioglilingua per il ritmo incalzante della musica. Una combinazione perfetta tra melodia e parole che entrano nella mente e ci rimangono, facendoci canticchiare il motivetto allegramente, anche più volte nel corso della giornata, dopo averlo ascoltato. 

Io mi chiamo Pasquale Cafiero
e son brigadiero del carcere oinè
io mi chiamo Cafiero Pasquale
sto a Poggioreale dal ’53
e al centesimo catenaccio
alla sera mi sento uno straccio
per fortuna che al braccio speciale
c’è un uomo geniale che parla co’ mme.
Tutto il giorno con quattro infamoni
briganti, papponi, cornuti e lacchè
tutte ll’ore co’ ‘sta fetenzia
che sputa minaccia e s’ ‘a piglia co’ mme
ma alla fine m’assetto papale
mi sbottono e mi leggo ‘o ggiurnale
mi consiglio con don Raffaè
mi spiega che pensa e bevimm’ ‘o ccafè.

Ah, che bellu ccafè
pure ‘n carcere ‘o sanno fà
co’ ‘a recetta ch’a Cicirinella
compagno di cella ci ha dato mammà.

 

Sembrerebbe una canzonetta leggera, musicalmente il brano infatti è una tarantella. Ma l’orecchiabilità gioca in contrasto con le parole che introducono con disinvoltura e ironia, sottile ma efficace, un tema sociale molto serio, ossia la denuncia della situazione deprecabile delle carceri italiane negli anni ’80 e la sottomissione dello Stato al potere della criminalità organizzata.

Voci dicono che il brano possa essere stato ispirato ad un mafioso camorrista di cui si sono fatti nome e cognome: Raffaele Cutolo, ma a smentirle arriva la testimonianza dell’autore del testo, Massimo Bubola, che la scrisse a quattro mani con Fabrizio De Andrè che spiega che in realtà la canzone è stata scritta pensando ad un personaggio di una commedia di Eduardo De Filippo ‘Il sindaco del rione Sanità‘, Don Antonio Barracano, che era per l’appunto un boss che dispensava consigli e aiuti ai suoi sottoposti, con una certa autorevolezza, se non propriamente etica, almeno di una certa qualità intellettuale.

L’equivoco però non fu dovuto solo al nome, Raffaè, del protagonista della canzone, scelto, come spiega ancora l’autore, semplicemente per un discorso di sonorità, ma anche perché il boss Raffaele Cutolo, com’è ormai noto, in quella canzone si riconobbe davvero, fino al punto di scrivere a De André per ringraziarlo per il ritratto e anche per chiedergli di musicare alcune sue poesie d’amore; cosa che De André chiaramente preferì evitare.

Don Raffaé è un monologo di Pasquale Cafiero, immaginario brigadiere del carcere di Poggioreale “dal Cinquantatré”, che racconta, romanzandolo, il suo rapporto ossequioso con un detenuto eccellente che nonostante la sua condizione, vive nel privilegio e nella comodità e non ha problemi a elargire favori.

Voi tenete un cappotto cammello

che al maxi-processo eravate ‘o cchiù bello[…]

pe’ ‘ste nozze vi prego, Eccellenza

mi prestasse pe’ fare presenza

L’ironia diventa accanita, a ben ascoltare, sulla natura umana portata a cercare favori e amicizie dai “potenti”, qualunque sia l’origine del loro potere. L’agente di custodia, sottomesso e corrotto dal potente malavitoso, gli offre speciali servigi, gli chiede diversi favori personali, se lo ingrazia con molti complimenti e gli offre ripetutamente un caffè, del quale esalta la bontà. Il caffè, simbolo di Napoli, pretesto per incontrare gli amici, scusa per una pausa nel quotidiano piattume, viene usato come freccia che evidenzia l’affronto, l’ossequioso, mieloso asservimento che il brigadiere porta in scena. Si potrebbe dire che il caffè è il cliffhanger del testo, il riassunto beffardo che riporta lo squallore dell’impiegato medio, italiano dell’epoca, sotto gli occhi del mondo.

E tutto il brano danza attorno a questo stridore: si dice quanto il boss all’interno del carcere conduca una vita agiata e di privilegi e quanto sia considerato “maestro”, anche rispetto agli altri detenuti apostrofati come papponi, infami o lacchè; maestro, dicevamo, che spiega la vita ai suoi sottoposti. In definitiva la canzone è una feroce satira sulla meschinità dell’essere umano e sullo Stato che combatte la criminalità solamente di facciata:

Prima pagina venti notizie
ventuno ingiustizie e lo Stato che fa
si costerna, s’indigna, s’impegna
poi getta la spugna con gran dignità.
Mi scervello. mi asciugo la fronte
per fortuna c’è chi mi risponde
a quell’uomo sceltissimo e immenso
io chiedo consenso, a don Raffaè.

La strofa contiene la citazione quasi letterale di un discorso di Giovanni Spadolini dopo una strage mafiosa a Palermo. 

 

Un galantuomo che tiene sei figli
ha chiesto una casa e ci danno consigli
l’assessore che Dio lo perdoni
‘ndentro ‘a roulotte ci alleva i visoni.
Voi vi basta una mossa, una voce
c’a `stu Cristo ci leva ‘na croce.
Con rispetto, s’è fatto le tre
vulite ‘a spremuta o vulite ‘o caffè?

Ah, che bellu ccafè
pure ‘n carcere ‘o sanno fà
co’ ‘a recetta ch’a Cicirinella
compagno di cella ci ha dato mammà
Ah, che bellu ccafè
pure ‘n carcere ‘o sanno fà
co’ ‘a recetta di Cicirinella
compagno di cella precisa a mammà

 

A proposito, tengo nu frate
che da quindici anni sta disoccupato
chillo ha fatto cinquanta concorsi
novanta domande e duecento ricorsi
voi che date conforto e lavoro,
Eminenza, vi bacio e v’imploro
chillo dorme cu mamma e cu mme
che crema d’Arabia ch’è cchistu ccafè.