Il Castello Sforzesco: storia di un simbolo odiato ed amato nella città di Milano

Nonostante sia uno dei simboli più importanti del capoluogo lombardo, per secoli i milanesi hanno considerato il Castello della loro città un emblema di tirannide e soprattutto di dominio straniero. Più volte, nel corso degli anni, i cittadini hanno tentato di attaccare e demolire l’edificio. Solamente con l’Unità d’Italia, ovvero dopo il Risorgimento, trasformandosi in uno dei centri di cultura più importanti della penisola, il Castello Sforzesco è diventato caro ai milanesi e simbolo della città.

 

Edificato tra il 1360 e il 1370 dal signor Galeazzo Visconti, allora signorotto di Milano, il Castello è il più grande tra quelli edificati dalla famiglia Visconti. Di pianta quadrata di circa 180 metri laterali è munito di quattro grandi torri anch’esse quadrate e di un ampio recinto, nato come rocca diventa successivamente residenza; i campi incolti e maltenuti sul lato nord-ovest si trasformano in un “zardinum” o “barcho”. Che ad oggi chiamiamo “Parco Sempione”. Della rocca viscontea sul quale successivamente sono state costruite le mura del palazzo rimanne, ai giorni nostri solo il basamento in pietra grigia di serizzo sul fossato e sui lati esterni della Rocchetta e della Corte Ducale che sembra sussurare alla città di Milano: “Una volta c’ero anche io”.

 

Dopo il dominio della famiglia Visconti, l’edificio venne quasi distrutto quando salì al potere l’Aurea Repubblica Ambrosiana, in seguito alla conclusione della dinastia viscontea, ma  quando il  il 25 marzo 1450 Francesco Sforza con la consorte Bianca Maria Visconti dopo essere stati acclamati dal popolo come Signori di Milano nonostante l’avessero assediata, decidono di ricostruirlo.  Lo Sforza, uomo di notevoli capacità militari e politiche, già difensore di Milano al soldo di Filippo Maria Visconti, riusci così non solo a farsi accogliere dai Milanesi come un vero e proprio liberatore, ma anche a rendere meno “cattiva” la visione della stessa agli occhi dei suoi sudditi.

 

Preso il potere sulla città, infatti, egli si preoccupò immediatamente di rinnovare l’allora “Castello Visconteo” in modo “sforzesco“. Consapevole del ribrezzo dei milanesi per l’antico maniero, Francesco Sforza  giustifica la  sua ricostruzione con il desiderio di abbellire la città, dimenticando quello che era stata la prima parte della sua storia e di garantire ad essa una massiccia difesa contro i nemici.

 

Affiancato dagli ingegneri militari Giovanni da Milano, Jacopo da Cortona, Marcoleone da Nogarolo, un architetto civile, Antonio Averulino detto “il Filarete”, incaricato di progettare la facciata verso la città, con l’alta torre centrale d’ingresso si cominciano i lavori. L’architetto toscano, Antonio Averulino, viene però allontanato e i lavori passano sotto la guida dell’architetto militare Bartolomeo Gadio, da sempre uomo di fiducia dello Sforza  dal 1452. Commissario per le fortezze del Ducato, Gadio modifica in primis la facciata verso la città aggiungendo ad essa due massicce torri angolari rotonde con un forte rivestimento in serizzo a punta di diamante, più consone delle prime a resistere alle nuove artiglierie con cui i nemici avrebbero potuto attaccare all’epoca. Sul lato opposto, fortifica e amplia la “Ghirlanda”, una cortina muraria già esistente in nell’era viscontea che, munita di due torri rotonde agli angoli e di una strada coperta, difende il fronte settentrionale della costruzione. I lavori per completare e abbelire arrichendo Castello si intensificano con il successore di Francesco Sforza: Galeazzo Maria, il primogenito, che si trasferisce nel Castello con la moglie Bona di Savoia, cognata del Re di Francia Luigi XI, e con tutta la sua corte dai camerieri, ai maggiorndomi fino ai cavalli nelle scuderie.

 

Anche Ludovico il Moro fratello del signor Galeazzo prende parte alle vicessitudini del castello, ma dopo poco per una congiura, (chissà chi è stato?) Galeazzo muore.

 

Ludovico Maria, detto il Moro, si appropria del potere, esiliando la ex cognata Bona, moglie del Galeazzo. Colto, intelligente amante delle arti, il Moro chiama alla corte milanese, divenuta tra le più raffinate dell’epoca, grandi artisti, tra cui Donato Bramante ed il mitico Leolino da Vinci, di cui oggi possiamo ammirare la Sala delle Asse. Nel 1490 commissiona a Bartolomeo Suardi detto il Bramantino la decorazione della Sala del Tesoro.

 

I lavori per rendere il Castello sempre più sfarzoso si interrompono bruscamente nel 1497, quando la consorte del Moro, Beatrice d’Este, muore di parto, e  le truppe francesi irrompono a Milano. Il Moro sotto attacco si prepara a resistere all’attacco nemico. Fa pulire i fossati, coprire i rivellini, riempire i muri delle cortine, raduna all’interno viveri, munizioni e artiglierie. Ma temendo anche una rivolta popolare, il Moro si rifugia presso la corte dell’imperatore Massimiliano I d’Asburgo, e lascia il castellano a custodire la dimora. Ludovico il Moro detto anche “il coniglio”, dopo alterne vicessitudini che lo portarono pure a riconquistare Milano nel 1500, muore però prigioniero in Francia otto anni dopo (che ci faceva in Francia non si sà).

 

Insomma queste pietre ne hanno viste di personalità vivere, amarsi, odiarsi e fare del bene e del male tra queste quattro mura. Parte della storia di Milano, una fetta molto importante viene raccontata proprio in questo spazio cittadino, che attualmente è uno dei luoghi cardine per il turismo, ma anche per i sudditi del signor Sala e dei suoi calzini colorati. Dinnanzi al castello troviamo anche la meravigliosa Torta Degli Sposi, una delle fontane piu’ famose d’Italia, che con i suoi suggestivi giochi di schizzi e di luce nella notte meneghina, rende ancora piu magico questo scorcio di vita, e storia della città.