Fonte fonto: saragavioli.me
Redattrice freelance e autrice di “Un certo tipo di tristezza”, Sara Gavioli scrive e valuta, con perseveranza adopera la sua esperienza al servizio di un mondo – quello editoriale italiano – ancora un po’ lento dal punto di vista della condivisione delle informazioni.
«Torno nel mio spazio, metto le cuffie e faccio partire la canzone del momento. Accendo il portatile. Inizio a impegnarmi, in silenzio, mentre il mondo continua a non saperlo. Un giorno, mi dico, vedranno. Un giorno vincerò io.»
Lei è dimagrita, qualcuno glielo fa notare. Ringrazia ed è felice, forse.Non mangia molto, e non fa nemmeno tanto sport. Sta cercando un lavoro, ma a Milano è difficile. Da sola, lontana dalla madre e da una forma di protezione che chiamerebbe volentieri casa, è dura; non riesce a trovare niente perché non ha esperienza, non ha abbastanza lauree, e poi ha bisogno di una partita IVA, ma non sa come funziona. Del resto, si sente anche incompetente e si chiede spesso perché dovrebbero scegliere proprio lei.
Non mangia molto perché in realtà non può permetterselo, però ora c’è lui. Lei è indecisa, ancora una volta; non sa se funzionerà, sia con quel ragazzo che non sente mai veramente suo, sia con tutto il resto.Qualche risultato però arriva, anche se spesso smorzato da quelle insicurezze con cui la vita ghermisce alcuni animi non ancora pronti. Lei ama leggere, qualcuno lo sa e un giorno le chiede di leggere ciò che scrive, e i suoi giudizi sono apprezzati. Un sorriso le deforma il viso, si sente un po’ incoraggiata e ci prova.Intorno il mondo si muove, lei ascolta tante voci, da ognuna di esse afferra un piccolo pezzo di vita e se lo porta con sé.
“Quindi cos’è che fai?”
Inizia a fare un lavoro che gli altri non capiscono e lei è sempre più stanca di doverlo spiegare, ma è felice. Inizia a guadagnare qualcosa, ora può fare la spesa e a volte paga anche il sushi al suo lui che si ferma spesso da lei a parlare. Intanto attende, perché lei scrive pure, e vorrebbe pubblicare un romanzo. Un agente letterario lo ha apprezzato e ha deciso di lavorarci su, poi si farà sentire, quando avrà delle notizie. Lei attende. Tra le incertezze e le paure per un futuro che non arriva, e tra i riflessi di una vita che sembra non partire, c’è una domanda posta dal padre che non c’è più: cosa sei, cosa sarai?
Attraverso un mosaico di piccole storie, Sara Gavioli racconta brevi frammenti indipendenti di un’unica storia: la protagonista affronta la vita di tutti i giorni, immersa nelle sue paure, nelle piccole sconfitte, ma anche in tante sorprese. Lei ha un sogno, esita, ma scoprirà che il mondo ha quel suo verso di abbracciare le cose che sciaborda le persone da un estremo all’altro della vita.
Le parole dell’autrice
Salve Sara, innanzitutto ti ringrazio di aver accettato questa intervista. Ho avuto già il piacere di conoscerti, ma ai lettori di Hermes Magazine, Sara Gavioli come si presenta?
«La definizione che ho ormai adottato è quella di “autrice, editor, supereroe”. Un po’ da megalomane, forse, ma ironica e necessaria per chi vive circondata dalle storie. Diciamo che amo darmi da fare. Produco podcast (“Nelle storie” e “Ikigai”), giro video su YouTube, sono molto attiva su Instagram e ho tanti altri progetti. Il modo migliore per conoscermi è venire a curiosare nel mio mondo, fra i racconti sulla vita del mio gatto Gunkan e i video sull’editoria.»
Ti consideri più editor o più scrittrice?
«Questa è una domanda che mi viene rivolta spesso, e che secondo me viene dall’idea che le due attività siano collegate. Per me non lo sono; sarebbe come decidere se mi sento più un’appassionata di candele profumate o un’amante dei cupcake. Si può essere entrambe le cose nello stesso modo, no? Comunque, in passato avrei detto editor senza indugi. Nell’ultimo anno, qualcosa nel rapporto fra me e la scrittura è cambiato; adesso direi scrittrice.»
Avevi già scritto un altro romanzo prima di questo. Con il senno di poi, quali differenze hai notato tra i due, in termini sia di consapevolezza e maturità dei propri mezzi, sia di difficoltà nella stesura?
«Scrivere con più consapevolezza è di certo più difficile, ma porta a risultati migliori. Credo però che l’unico modo per migliorare sia produrre; il mio primo romanzo ha ricevuto tanto affetto e ne sono grata e sorpresa, non mi pento di averlo condiviso, ma sarebbe grave se lo considerassi migliore del secondo. Si cresce, per fortuna. La differenza principale sta nella considerazione per il lettore, credo. Più si scrive, più lo si fa per chi legge.»
Il fatto di essere una editor ti ha aiutata molto nell’essere anche una scrittrice?
«Sì, parecchio. Lavorando con gli autori ho imparato a notare gli errori classici e a evitarli. Ho poi conosciuto l’editoria dall’interno, cosa che disillude (e può essere fatale) ma rende anche realisti.»
Perché il tuo romanzo si chiama “Clinamen”?
«Si tratta di una citazione dalla filosofia. Il Clinamen è la forza che spinge gli atomi al moto casuale, che culmina nel loro scontrarsi e formare i corpi composti. Il mio libro è un insieme di frammenti brevi, comprensibili anche da soli ma che insieme formano una storia unica. Mi è stata fornita anche un’interpretazione interessante da una lettrice, su questo: gli stessi personaggi sono come gli atomi, le loro relazioni sembrano guidate da quel moto casuale. Mi è piaciuta un sacco.»
Il romanzo si potrebbe definire un “mosaic novel”. Ci spieghi cosa vuol dire?
«Così è stato definito dall’agenzia letteraria che lo ha scelto. La definizione mi è piaciuta; rappresentava la sua stranezza, eppure è ciò che i lettori hanno poi apprezzato in modo particolare. Vuol dire, di base, quel che dicevo prima: è composto da cento capitoli brevi, frammenti che nell’insieme creano un “mosaico” unico.»
Che io ricordi, nel testo non si fa cenno ai nomi dei protagonisti. C’è un motivo particolare dietro questa scelta?
«Dietro a ogni scelta di chi scrive c’è un motivo, no? Certo. Clinamen parla di varie tematiche, ma la principale riguarda un momento della vita che capita proprio a chiunque. La protagonista è l’occhio che funge da narratore, ma lo scopo della storia è di “contenere” chi legge. “Contenere” me l’ha suggerito un’altra lettrice, e ho adorato anche questo. In ogni caso, preferisco che siano i lettori a dare senso a ogni scelta del testo, com’è giusto che sia.»
Nel romanzo si parla del percorso che la protagonista intraprende tra mille incertezze, che la porta poi a fare qualcosa che riguarda molto la tua professione. Non mi spreco nella solita domanda su un possibile romanzo autobiografico o meno, ma volevo chiederti questo: hai voluto forse dare dei punti di riferimento, indicandone anche gli aspetti oscuri, a quanti volessero intraprendere la strada di editor o di scrittore?
«Non era proprio una mia intenzione precisa, ma se è così mi fa piacere. Più che altro, credo non ci siano molti romanzi che parlano del lavoro editoriale. Di solito, i personaggi sono soltanto scrittori; ma dietro a un libro c’è molto altro e non se ne parla un granché.Il mestiere dell’editor freelance è poetico e bellissimo, ma è un lavoro come gli altri e ha tanti problemi, tante difficoltà. Parlarne serve a eliminare un po’ di quel romanticismo ingenuo che vedo in tanti aspiranti redattori; se dopo la lettura vogliono ancora essere degli editor, forse allora sono pronti.»
Attraverso la descrizione di piccole e semplici scene quotidiane, hai anche affrontato, con una certa leggerezza (che non vuol dire superficialità), temi sociali molto attuali, quali il razzismo e il maschilismo. Come pensi si debbano affrontare questi argomenti al giorno d’oggi?
«Non penso di poter dire come bisognerebbe affrontarli, ma di sicuro si dovrebbe provare. Io ho inserito degli elementi, scene che rappresentano come sono le cose nella vita quotidiana. Il razzismo, per esempio: non a tutti capita di assistere a momenti di violenza concreta, però a chiunque succede di ascoltare una frase detta in giro, per caso. Tendiamo a dimenticarcene.»
Nella duplice veste di editor e scrittrice, quali sono le maggiori difficoltà in cui incorrono uno scrittore e un editor, sia nel loro lavoro autonomo, sia in relazione al momento in cui queste due figure si confrontano sul testo?
«Uhm, quante cartelle ho per rispondere?Be’, lo scrittore deve uscire da sé e darsi al lettore. Si scrive sempre per chi legge, è un atto d’amore. Penso sia il passo più difficile. L’editor deve invece amare sia lo scrittore e sia il futuro lettore. Il rispetto per chi ha scritto è la base del lavoro, ma la difficoltà sta nel conciliare le sue esigenze con quelle di chi poi il libro dovrà leggerlo. Nonostante non sembri così, l’editor ha però il compito più semplice, fra i due. Il suo è uno sguardo esterno, che dev’essere comprensivo ma che non è coinvolto in modo diretto. Lo scrittore è inevitabilmente immerso nel testo, distaccarsene è difficilissimo.»
Hai deciso di autopubblicarti pur avendo ricevuto diverse proposte da varie case editrici. Perché?
«Autoproducendomi, l’editore di Clinamen sono io. Questo è forse l’equivoco maggiore sul self publishing: l’idea che un editore non ci sia. Ho semplicemente accettato la proposta dell’editore più adatto al mio romanzo, come dovrebbe fare qualsiasi autore competente. L’ho fatto perché il testo era già lavorato, grazie all’agenzia e al mio editor; ero in grado di impaginarlo e creare la copertina; avevo un pubblico di lettori impazienti di leggere. Le case editrici che mi hanno fatto delle proposte non avevano nulla in più di questo, dunque non mi sarebbe convenuto cedere i diritti a loro. La pubblicazione di un libro è lavoro; accettare solo per avere un marchio vuol dire ritenersi di scarso valore.»
In Italia esiste ancora un grande pregiudizio nei confronti dell’autopubblicazione. Avendo scelto tale strada, quali sono secondo te gli elementi positivi di questo tipo di pubblicazione? E quali sono i lati negativi, se ne hai individuato qualcuno?
«Nel mio caso, non ho riscontrato alcun elemento negativo. Chiaro che dipende dalla situazione: autoprodursi senza esserne in grado, in quanto a competenza o a investimenti di tempo e denaro (l’editing costa!), porta all’insuccesso. Gli aspetti positivi, sempre nel mio caso, sono parecchi. Ho modo di monitorare le vendite ogni giorno, posso gestire promozioni o invii ai blogger, ho il controllo su tutto ciò che riguarda il mio libro. La distribuzione, che in genere viene menzionata come difetto del self, in realtà c’è: qualsiasi libraio può ordinare quante copie desidera tramite il servizio Business di Amazon e le riceve più velocemente rispetto a quelli inviati da Messaggerie. Quel che manca, se vogliamo, è l’investimento economico che un editore fa sugli autori in cui crede. Può essere utilissimo; non dovrebbe esserci competizione tra autoproduzioni e case editrici, si tratta solo di percorsi diversi. Per quanto riguarda il pregiudizio… Francamente, è legato solo all’ignoranza. Ciò che conta, di un libro, è che sia bello e curato. Se scegliamo cosa leggere in base al marchio, c’è qualcosa che non va.»
Spesso si sente dire che un romanzo, per quanto sia scritto bene e sia interessante, non è “commercialmente proficuo”, e quindi gli editori non si mostrano propensi a pubblicarlo. In base alla tua esperienza, può un buon romanzo subire le conseguenze delle crudeli regole del mercato?
«Succede tutti i giorni, in tutto il mondo. E non riguarda solo l’editoria: accade nella musica, nella fotografia, nella pittura… Ma non è colpa delle aziende, che funzionano come devono funzionare. Forse è un po’ colpa nostra?»
Se dovessi parlare a qualcuno che vuole intraprendere il tuo stesso percorso, cosa gli consiglieresti di fare?
«Di pensarci bene. No, aspetta, intendevi nell’autoeditoria?Allora: di stilare una lista con tutto ciò che si aspetterebbero da un buon editore, e capire che quelle cose là dovrà farle lui. Una per una, tutti i giorni. Sempre. Se intende farlo, ok; altrimenti, meglio lasciar stare.»
Il tuo libro è disponibile non soltanto su Amazon, ma su tante altre piattaforme. Com’è stata questa esperienza di autopubblicazione?
«Divertente, un primo esperimento che mi ha colpita e che sono felice di poter ripetere. Adesso sto puntando gli audiolibri; sarebbe carino iniziare a produrne. Imparare qualcosa di nuovo mi interessa sempre, e il mondo dell’autoproduzione è in continuo mutamento. Mi sento a casa.»
Sara, ti ringrazio ancora a nome di Hermes Magazine per questa intervista. Ti faccio ancora i complimenti per il tuo romanzo, credo che presto ne sentiremo parlare molto. In bocca al lupo!
«Grazie mille, è stato un piacere. E crepi il lupo!»
Mi sono laureato in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Napoli \”Federico II\” e in seguito ho realizzato varie esperienze di studio e di lavoro all’estero (Egitto, Francia, Spagna). Tornato in italia, ho inizato a specializzarmi nel settore della scrittura e dell’editoria. Dopo aver collaborato per un breve periodo con la casa editrice Einaudi, mi sono trasferito a Parigi, dove vivo tutt’ora. Al momento collaboro con la casa Editrice Italo Svevo Edizioni in qualità di Responsabile di progetti di coedizione internazionale, occupandomi di curare i rapporti con alcune case editrici francesi e di altri paesi europei ed extraeuropei. A partire dal mese di settembre 2020 scrivo per Hermes Magazine, di cui sono anche responsabile della sezione libri.