Cosa sognano i pesci rossi: il romanzo d’esordio bestseller di Marco Venturino

fonte immagini: dalla rete. © 2005 Mondadori

Oggi parliamo di un libro che, nonostante il grande successo editoriale, forse non è comunque abbastanza conosciuto (non quanto dovrebbe, per lo meno). Eppure, in molti dovrebbero leggerlo. Cosa sognano i pesci rossi, di Marco Venturino, prima edizione Oscar Bestesellers Mondadori (2005), racconta i pensieri raccolti dentro una boccia di un uomo di successo di mezza età, Pierluigi, del quale improvvisamente la vita… è finita. No, non è morto.

Il pesce rosso del libro, il numero 7 secondo la sua assegnazione di reparto, è un uomo in terapia intensiva, l’effetto collaterale di un intervento chirurgico decisamente azzardato per la rimozione di un tumore ritenuto inoperabile praticamente da tutti e sul quale nessun chirurgo aveva avuto l’ardire di mettere le mani; tutti tranne l’insigne dottor Fulgenzi, che a pratica eseguita lo ha parcheggiato in rianimazione e avanti un altro. Perfettamente cosciente ma del tutto scollegato (ma non per questo disconnesso) dalla società di cui ancora fa parte, ora Pierluigi è dentro la boccia di vetro: quell’involucro che lo rende incapace di comunicare verso l’esterno che improvvisamente è diventato il suo corpo, nel quale però vagolano liberi e concreti (libertà interpretativa dell’autore) i suoi pensieri (anche quando essi sono confusi), nella coscienza dei quali il protagonista osserva il mondo proprio come farebbe un pesce rosso dietro il vetro che ne limita l’interazione. Ora le giornate di Pierluigi sono scadenziate solo dai Bip dei macchinari e dal giro letti del personale del reparto, ma un Bip non è certo una parola, e un controllo non è un contatto.

È un libro che parla di comunicazione, infatti, di quella che crolla non appena viene a mancare il mezzo, ma non solo. Racconta anche del mondo di solitudine che si crea, e quando si abbandona la propria realtà. Un abbandono non voluto, forzato. Il pesce rosso vive in una sua società vincolata. Assurdamente, egli non è solo: tanti sono nelle sue medesime condizioni, ma essi sono assieme solo concettualmente. Quella cui la storia ci permette di assistere è quindi la frattura definitiva dalla società che il personaggio conosceva (e che ancora agogna) e l’appartenenza a un’altra che però non c’è. C’è ma solo sulla carta: non è una società, è un insieme. E nonostante tutto lui (persino lui) non è un asociale (non vorrebbe certo esserlo). E la società di cui faceva parte ancora lo contempla come membro, tuttavia sempre meno. Essa stessa nei suoi vari elementi si interroga più volte su quanto il nostro pesce rosso sia ancora persona e quanto invece “cosa”. E il bello è che una cosa (sebbene possa comunque essere elemento di un sistema) non può esser parte di una società di persone. Al massimo di un elenco: quello di cui è entrato a far parte. Che conta tanti membri ma tutti viventi in universi separati gli uni dagli altri.

La storia di Pierluigi si incrocia con quella di Luca: stessa età, medico responsabile del reparto del numero 7. Luca non ha nessun problema fisico, non è bloccato da un corpo che non risponde, non è affidato alle cure di qualcun altro. Eppure anche Luca è un uomo in crisi, in contemplazione dei suoi fallimenti personali di una vita da divorziato, senza amici, senza prospettive di svolta professionale: perché non ne ha la tenacia per perseguirle, lo spessore morale per sostenerle, ma al contempo ha l’intelligenza per riconoscere che reali prospettive di cambiamento comunque non esistono davvero; che la vita è comunque piatta e uniforme come una strada senza curve. Che la fama e il successo troppo spesso sono immeritate: è facile avere il coraggio di approntare un intervento impossibile per poi lasciar (soprav)vivere il paziente in terapia intensiva. Quindi Luca tutte queste possibilità di cambiamento (a ragione, probabilmente) non le vede, e resta pertanto un uomo pieno di vizi che non hanno nessuna reale possibilità di appagarlo. Cinico, alcolista, disincantato e disilluso, ma non per questo meno capace o scrupoloso. Nonostante le comunicazioni di buone speranze arrivino ogni giorno, Luca conosce molto bene il suo lavoro e sa che il numero 7 non è certo un caso da miracoli.

Tutto il libro è una profonda riflessione, infatti, oltre che sul difficile rapporto tra la vita non vissuta e quella semplicemente che se ne va (entrambe sul precipizio della non esistenza) anche su ciò che sono i malati e le carriere (non solo sanitarie) oggi, entrabi numeri in strutture aziendali occupate soprattutto a far quadrare i conti, nelle quali coesistono vite, ognuna sofferente della propria specifica malattia, coadiuvate da semplici elementi del sistema (adeguati ma spesso insufficienti) e medici che giocano a fare i supereroi, tutti pezzi (per vari evidenti motivi poco ingranati) di una macchina sempre meno umana e sempre più numerica.

Curiosamente, una macchina del quale Pierluigi fino a pochi giorni prima era un pezzo sostanziale, e che Luca percepisce in tutta la sua inutilità, fino a trasferire la stessa nella sua vita. Eppure, anche Luca, come il suo assistito, si soprende di avere ancora tanto da dire e da dare ma come Pierluigi – per altri motivi – non riesce a farlo, anche lui bloccato da una boccia di vetro che lo separa dal mondo esterno, nel quale vive e interagisce, ma con il quale non comunica realmente. A Luca, diversamente da Pierluigi, quello che viene a mancare non è il mezzo, ma il contenuto. Cionondimeno, il suo messaggio si perde comunque.

Cosa sognano i pesci rossi è il romanzo d’esordio dell’autore, Direttore della Divisione di Anestesia e Rianimazione allo IEO, l’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. Nonostante il numero sette sia indiscutibilmente il protagonista del libro, egli è anche il motore per l’innesto della macchina narrativa che vede alternarsi capitoli dedicati ad entrambi i personaggi, narrati in prima persona presente (uno dei pochi casi in cui questo può avere un reale senso narrativo), in un continuo scambio di situazioni fatte per ricordare l’etica a chi già la dovrebbe professare e fungere da promemoria per ricordarsi di vivere la vita a chi è troppo impegnato, troppo attento alla carriera, o semplicemente si sente troppo importante. A tratti il libro usa parole che a taluni potrebbero far male, ma è voluto. Come nello stesso è riportato, quello che si racconta qua ha ben poco a che vedere con la vita. Casomai con la sopravvivenza.

A vivere bisogna pensarci prima.

Il libro è naturalmente in buona parte fantasia, volutamente. Troppo spesso il lettore è portato a chiedersi (come l’autore voleva) se il paziente senza voce possa essere realmente presente (e semplicemente scollegato) come il numero sette. È chiaro il suo tentativo di prestare una coscienza a chi non è detto l’abbia, una pareidolia all’ennesima potenza, necessaria perchè il lettore comprenda che non ha davvero modo di capire come possa essere non vivere senza esser morti, cosa che in termini diversi è reale anche per Luca. Un inno alla vita, a non lasciarsela sfuggire. E che quando sarà, che sia stata vissuta, e non semplice tempo trascorso.