L’età fragile, candidato al Premio Strega, fa pensare, riflettere, scavando nei meandri della propria interiorità per cercare di fare luce dove è più buio, dove la ragione non arriva — ma nemmeno le parole, a spiegare quei nodi intricati di legami difficili e spinosi. Così le parole di Donatella Di Pietrantonio ondeggiano sin dal primo capitolo, tra da una parte la solitudine, il silenzio, il dolore sordo e il tentativo di tendere a fatica una mano e dall’altra il rifiuto, l’omissione, l’inutilità proprio in quei legami che valgono di più, come quello tra madre e figlia.
L’ambientazione
Il paesino vicino a Pescara è quello in cui si rifugia Amanda per sfuggire all’imminente chiusura di tutta l’Italia quando si scoprono i primi casi di covid-19: sta per scoppiare la pandemia e da Milano scende a trovare la madre, apparentemente per rifugiarsi da lei. La protagonista Lucia racconta di questa figlia che sta sempre chiusa in camera, senza orari, senza mangiare, senza uscire, senza parlare, senza fare nulla, senza studiare, sbuffando per ogni accortezza o attenzione della madre: è sempre tutto sbagliato lì, senza le luci della grande città, dove aveva trovato l’indipendenza forzata per rigettare il guscio materno, le illusioni e le disillusioni che la rendevano viva.
La convivenza nella pandemia
La rabbia incontenibile ma silenziosa si sfoga contro la madre, l’unica sempre pronta ad accoglierla soprattutto ora che rigetta tutto e si addormenta per un giorno intero, quasi a rifiutare la vita. Sono davvero dei “sopravvissuti” questi ragazzi della pandemia a cui è stato spezzato il futuro, anche se per un paio d’anni e basta, ma in cui hanno toccato il vuoto e si sono riavvolti su loro stessi, rifiutando ogni possibilità di andare avanti. Che pena per una madre dover assistere inerme a tutta questa regressione devastante! Così per circa 5-6 capitoli Donatella Di Pietrantonio racconta di Amanda e Lucia, di un rapporto strappato che non si ricuce e di una forzata convivenza, in cui, dal lato opposto di questa bilancia sgangherata, c’è il padre Rocco ormai anziano che “mi chiede di accompagnarlo nel suo ultimo tratto […]. A mia figlia devo restituire il mondo. Mi tirano ognuno dalla propria parte, al proprio bisogno. Mi spezzano”. Eh già, perché anche una madre avrebbe il diritto di protestare contro questi legami-non-legami, tra l’inflessibilità della vecchia generazione e l’inerzia nervosa e provocatoria dei figli, spesso sospesa tra i due baratri, lei, separata, su cui si riversano le ondate dei doveri e delle responsabilità inderogabili nonché i dilemmi da risolvere.
Il Dente del Lupo
A complicare la vita di Lucia c’è la donazione del padre di un terreno ambito dagli speculatori edilizi, un tempo sede di un campeggio segnato da un evento drammatico. E qui la storia di ordinaria routine si tinge di giallo, nell’incontro con la terra primigenia che rievoca insistentemente immagini di morte e di disperazione del passato, che la protagonista vorrebbe cancellare o forzare verso una conclusione positiva, ma che invece le ripropone quegli sbagli enormi da cui ormai non può più sfuggire.
La fragilità generazionale
È nel ripetersi di quelle immagini che Lucia scopre la sua fragilità di giovane impotente di fronte al vortice che allora ha ingoiato Doralice, la sua più cara amica, e allo stesso momento scopre la fragilità della figlia. Infatti un immenso dolore ha devastato Amanda quando è stata scippata a Milano quella sera, ma di cui non ha parlato alla madre, chiusa nella sua orgogliosa indipendenza di volersela cavare da sola “perché ormai sono grande”. E ora il rimorso per non avere coperto immediatamente quella distanza tra Pescara e Milano per dare conforto ad una figlia che ne avrebbe avuto naturalmente bisogno — ma che in realtà non la voleva”— logora Lucia di sensi di colpa. Sorge allora una domanda legittima: una madre deve essere rispettosa dell’indipendenza della figlia, oppure deve fidarsi solo del proprio istinto, sentire e captare il malessere a distanza e invadere la sua sfera per distruggere quel muro di dolore in cui una figlia potrebbe piombare senza rimedio? Conclude con amarezza la scrittrice:
“La vita segreta dei figli. Sappiamo che esiste, ma non siamo pronti a toccarla […] Il malessere di mia figlia devo ancora capirlo, non viene da una parte sola.”
La nostalgia del ritorno
Ciò che accomuna madre e figlia è allora la nostalgia: del tempo passato, dei luoghi di allora, delle scelte sbagliate, della perdita dei legami umani, dei fantasmi che restano nell’armadio: ma a farci rendere conto di tutto ciò è proprio quello stesso tempo che ci abbandona inesorabile. Tuttavia, proprio quando riusciamo a percepire il dolore che ci provoca dentro, scavando nei nostri sentimenti e svuotandoci delle persone e delle passioni a cui teniamo di più, è proprio allora che dobbiamo reagire. Soltanto separandoci da quelle fragilità del passato, infatti, possiamo veramente prendiamo atto delle mutazioni del mondo, superare i nostri limiti e accettare che anche i sentimenti e le persone più care cambiano: prendercene cura equivale a “ripartire”, a ricostruirsi.
La ripartenza
La parte finale del libro appare come uno spiraglio di positività rispetto ai capitoli iniziali. Ripartirà infatti il paese e il campeggio, con nuove costruzioni; ripartirà la madre di Doralice, imparando a convivere con il suo dolore immenso; ripartirà Amanda per tornare a Milano, ma non per laurearsi, bensì per andare a vendemmiare a Jesi. Infine ripartirà anche Lucia con il suo ambulatorio, riuscendo finalmente ad accettare che “ciò che vale per me, (ma che ) conta così poco per mia figlia […] Come sono diversi i figli visti da lontano. Sfocati, imprecisi. Irreali”. Eppure Amanda la assolve dalla sua assenza nel momento più doloroso della sua vita, dichiarando che con la sua presenza non sarebbe cambiato molto. Forse anche la protagonista imparerà ad autoassolversi, a prendere atto del tempo che passa, a resettare il verso in cui si evolvono i legami, i propri cari, i sentimenti, per arrivare finalmente a vivere in armonia con la realtà del presente.