La superficie dell’acqua sembra una linea di confine che delimita il nostro mondo da una dimensione a noi parallela e allo stesso tempo coesistente. Un luogo di contaminazione che comunque ci rimane distante, ed è questo che ci permette di annullare completamente l’empatia con ciò che è l’acqua e con la fauna e la flora che la abitano. Gabriele Bertacchini, autore de L’orso non è invitato, non è nuovo al parlarci di ciò che abbiamo sotto al naso e che comunque in pochi vediamo. Infatti se con il suo primo saggio ci parla di come la biodiversità sulla terra stia pericolosamente scomparendo, con Il pesce è finito ci porta sotto la superficie dell’acqua rendendola trasparente, quasi incorporea, annullando le distanze fra noi e gli abitanti che la popolano.
L’autore affronta il tema in modo oggettivo senza però tralasciare la componente affettiva che indissolubilmente lo lega all’acqua, sia dolce che salata. Questa commistione fra dati, statistiche, prospetti e ciò che a livello archetipale lega gli esseri umani a questo elemento, che per altro rappresenta anche ciò di cui in larga parte siamo fatti, porta il lettore a effettuare un lavoro di autocoscienza. L’accento viene posto sulla domanda e sulla quantità di prodotto ittico immesso nel mercato con l’unico scopo di abbassarne il prezzo. Ma si può davvero dare un prezzo alla vita ed abbassarne il valore senza pagare il debito che maturiamo nei suoi confronti, nel lungo periodo? La risposta è no! Infatti i dati che ci porta Gabriele Bertacchini dicono tutti che fra il 2040 ed il 2050 la biodiversità marina così come la conosciamo non esisterà più.
Quel che si legge in queste pagine però è molto più di un elenco di specie in via di estinzione e di ecosistemi ormai distrutti, anche se purtroppo ce ne sono in abbondanza; già dalle prime pagine si legge il tentativo di risvegliare qualcosa di più profondo del senso del dovere “Noi trasformiamo il mondo ma poi non ce ne ricordiamo. Adattiamo la linea di riferimento ai nuovi standard e non ricordiamo che cosa ci fosse prima. Vogliamo proteggere cose che non ci sono più o che non sono più com’erano”. Questa è solo una delle frasi che porta alla luce come, per quanto concerne disastri ambientali e responsabilità verso il pianeta, l’atteggiamento sociale sembra essere quello di un bambino che dopo aver combinato qualche danno tenta inutilmente una via per sentirsi meno in colpa. Purtroppo però ci sono casi come questo, in cui il danno è davvero enorme e perpetrato da così tanto tempo che non siamo più in grado di dire con esattezza che cosa si è perso per sempre e che cosa possiamo ancora fare per rimediare.
Fra tutte le specie a rischio le più emblematiche credo siano: merluzzo, storione e salmone. Non che le altre siano meno degne di nota ma questi tre casi ci raccontano di come l’industrializzazione della pesca e la globalizzazione del mercato ittico siano state capaci di innescare un sistema che ha tolto la dignità umana a degli esseri viventi per farli diventare dei beni di consumo. Ad esempio quelli che oggi conosciamo come bastoncini di pesce, sono nati a metà degli anni ’50 come bastoncini di merluzzo norvegese e, nel giro di poco più di vent’anni, sono arrivati a buon mercato su tutte le tavole. Così quando la dicitura sulle confezioni ha iniziato a variare in bastoncini di pesce non ci siamo fermati per chiederci che fine avessero fatto i merluzzi visto che il prodotto finito non era dissimile dal precedente: veloce da preparare, senza spine, già impanato. Per quanto riguarda gli storioni è davvero difficile non chiedersi come si potesse pensare che, continuando a mangiarne le uova, presto o tardi non sarebbero stati a rischio estinzione.
Vi ho citato anche il salmone perché è un pesce molto contemporaneo e che solleva tutta una serie di questioni legate: all’alterazione dell’ecosistema marino, all’acquacoltura, all’alimentazione non adeguata di ciò che mettiamo sulla tavola. Tutto questo perfettamente mascherato da un colore fittizio delle carni, raggiunto grazie a coloranti alimentari, e da etichette che provano a rendere, nel nostro immaginario, gli allevamenti intensivi come luoghi adatti a crescere animali liberi. E siccome, come si legge fra queste pagine, “non esiste un modo giusto per fare una cosa sbagliata”, la grave conseguenza che stiamo pagando nel presente è l’incapacità di percepire la sofferenza e la devastazione che la globalizzazione del mercato ittico sta causando, più che un’attività commerciale sembra una vera e propria guerra fatta di: avvelenamento delle acque, bombe, reti elettrificate, pesche in cui si sceglie di salvare una rete deturpando il pesce che vi è rimasto accidentalmente intrappolato, reti sempre più sofisticate che non lasciano scampo anche quando si perdono per mare tramutandosi in detriti mortali. Così, anche se Gabriele Bertacchini ci porta delicatamente per mano sott’acqua, è impossibile ignorare la brutalità che l’essere umano ha riservato a questa parte di mondo.
Lavoro come grafica-creativa, illustratrice e content editor freelance.
Sono diplomata in grafica pubblicitaria e parallelamente ho studiato disegno e copia dal vero con Loredana Romeo.
Dopo il diploma ho frequentato beni culturali presso l’università di lettere e filosofia e parallelamente seguivo un corso di formatura artistica, restauro scultoreo e creazione ortesi per il trucco di scena.
A seguire l’Accademia Albertina di Belle Arti con indirizzo in grafica d’arte (che mi ha permesso di approfondire: disegno, illustrazione, incisione, fumetto).
Sono sempre stata interessata e assorbita dal mondo dell’arte in tutte le sue forme e dopo la prima personale nel 1999-2000 non ho mai smesso di interessarmi alle realtà che mi circondavano.
Nel 2007 ero co-fondatrice e presidente dell’Associazione Arte e Cultura Culturale Metamorfosi di Torino e in seguito ho continuato e continuo a collaborare con vari artisti e ad esporre.
L’amore per l’arte in tutte le sue forme, il portare avanti le credenze e le tradizioni familiari hanno fuso insieme nella mia mente in modo indissolubile: filosofia, letteratura, esoterismo, immagine e musica.