“Storia di un numero”: recensione del romanzo di Davide Rossi

Fonte foto: Once Upon A Time A Book

Storia di un numero di Davide Rossi, edito da Rossini Editore, è un libro che guardi negli occhi e ti ci perdi. Sono grandi e neri, e li vedi come anima di un viso color ebano che rivendica il suo diritto alla vita ma ottiene solo polvere e sangue. Storia di un numero affronta e denuncia la terribile condizione dei migranti dando loro voce. La si sente prima come urlo, poi soffio e infine sibilo.

Il racconto parte dall’inizio di una vita difficile ma prepotentemente desiderosa di affermarsi in dignità e libertà, di un ragazzo africano intelligente e capace che studia e impara tante cose, tra cui l’italiano che lo affascina, ma ingoia ogni giorno rabbia, dolori, solitudine e impotenza, insite nella sua Terra e nei suoi abitanti. Prosegue descrivendo il tempo dei sogni, degli ideali inseguiti a caro prezzo. Nettamente di staglia sugli altri messaggi il disperato coraggio, che diventa incosciente ma sacrosanto, di trovare un senso, un posto nel mondo. Questo coraggio spinge il protagonista a sopportare la separazione dalla famiglia, prima, e le umiliazioni, la privazione della sua identità, le torture e il furto di speranze e futuro, dopo. Il romanzo termina con un riscatto finalmente ottenuto, agognato ‒ che però ha il sapore del sangue ‒ in Italia dove i sogni più dolci lo attendono. Ma sarà vero?

La bravura dell’autore sta nella potenza del messaggio lanciato al lettore. Scritto in modo semplice, efficace, crudo ma mai con ostentata violenza, racconta uno spaccato vergognoso del nostro mondo, della sua cattiveria e cupidigia, della sua pochezza nel considerare l’Africa una miniera umana da sacrificare in nome del dio danaro, del dio potere, del dio odio. La guerra, la discriminazione, la crudele indifferenza di uomini ‒ che di umano hanno ben poco ‒ verso il prossimo, considerato non come essere vivente ma come un numero. Ecco, il titolo del libro è la sintesi di tutto l’orrore di cui questo spaccato di mondo è capace. In tre parole è racchiusa l’assurdità crudele e attualissima che viviamo da anni con la gestione dell’accoglienza dei migranti.

Davide Rossi con il suo romanzo tira fuori una verità brutta da guardare in faccia. La lettura a volte costringe il lettore a fermarsi per ascoltare nel profondo quella voce che cambia tono, che si affievolisce, che si svilisce, che sembra morire e invece per disperazione resta. Resta in un numero. Lui è l’8 che se si scrive in orizzontale diventa il simbolo dell’infinito. L’infinito che assume tanti volti: l’infinito dolore affidato al mare, negli abissi del quale finiscono i sogni, ma anche le sofferenze e le ingiustizie. Lì si sciolgono esistenze violate, calpestate. Le vite di donne, bambini e uomini che lottano inutilmente per la loro libertà e diventano martiri. L’infinito e inspiegabile pregiudizio secondo cui alcuni esseri umani debbano essere merce.

La storia di questo numero rimane nell’anima e produce eco. Prima di scrivere questa recensione ho aspettato che sedimentassero in me le parole, che passassero attraverso il mio vissuto per comunicare a quanti leggeranno l’articolo la presa di coscienza che il libro impone: discernere la verità dalla quantità di inganni che ci raccontiamo quando difendiamo il nostro territorio, il nostro lavoro e il nostro cibo dall’invasione dei popoli che fuggono da orrori che decidiamo di ignorare. Discernere la realtà diversa che difendiamo commemorando l’Olocausto e quella che continuiamo a modellare sulla stessa matrice, ma con parti diverse. Discernere la consapevolezza che il silenzio nell’opulenza del nostro mondo non ci affranca da responsabilità dall’attivismo che potremmo vestire per fare davvero la differenza.

La potenza di questa attribuzione di significato fa andare oltre qualche limite che il libro ha nella stesura, nella costruzione strutturale della trama romanzata, a volte inverosimile, che ne compromette la valenza ma non ne inficia la morale.