Va’ dove ti porta il libro: l’importanza del “sentire” l’ambientazione nei romanzi

“Gli eschimesi hanno 52 termini per indicare la neve, perché essa per loro è tanto speciale; ce ne dovrebbero essere altrettanti per l’amore.”

     Margaret Atwood

Gli eschimesi usano più di 52 parole per definire la neve, lo sapevate? Gli inglesi (e anche gli irlandesi, dai tassinari fino agli assidui frequentatori di pub) parlano sempre del tempo. O meglio, di quanto è bella la pioggia di Monza. A Napoli e a Salvador de Bahia il suono delle onde del mare sono elementi che fanno parte della quotidianità delle persone, a Milano, la nebbia d’inverno è d’obbligo, e il suono del Tevere sotto Ponte Milvio è parte integrante dell’aria di Roma. Tutto questo per dire che cosa?

Che l’ambiente, in una storia, in un manoscritto o in un libro, è estremamente importante, e la sua descrizione, soggettiva più che quella oggettiva (dal mio punto di vista), serve a dare una connotazione nello spazio e nel tempo alle pagine che teniamo tra le mani. Quando il lettore legge e segue le vicende del protagonista attraverso un’ambientazione originale ed evocativa, può realmente tuffarsi con gli occhi nel luogo in cui il libro colloca il suo spazio. L’ambiente influenza chi ci vive nel profondo, nell’animo e nella vita più di quanto possiamo immaginare. Non solo. Un’ambientazione ben caratterizzata e dettagliata può salvarci a volte dai vuoti di trama, o da un dialogo spoglio di importanza, da una scena povera.

Se il personaggio di cui stiamo raccontando si trova a dover chiedere un’informazione nel luogo dove si svolge la scena, e ci sono quaranta gradi all’ombra, posso fargli asciugare il sudore con un fazzoletto, posso mandarlo al bar a comprare una bottiglia d’acqua, posso farlo svenire, posso farlo innervosire per il troppo caldo o godere perché finalmente è arrivata l’estate e il suo modo di reagire mi dà anche l’opportunità di delineare meglio i tratti del suo carattere. E quindi di conoscerlo.

  “Capii in quel momento che noi non avevamo più un posto dove andare. Tutti i nostri amici erano ‘bucomani’. E tutti i posti che conoscevamo, dove in un certo senso eravamo di casa, erano posti del giro dell’eroina. Andammo alla metropolitana senza parlare della nostra meta. Fu tutto automatico. Eravamo tirati da un filo invisibile senza che ce ne rendessimo conto. E alla fine stavamo al Bahnhof Zoo.”

Christiane F. – I ragazzi dello zoo di Berlino

Utilizzo una citazione di Christian F. per farvi capire come delle semplici parole riescano a riportare nella mente del lettore dei luoghi in maniera molto vivida senza oggettivi richiami all’ambiente. Eppure, attraverso le parole utilizzate dalla lettrice, si ha la chiara percezione della periferia degradata e carica del disagio di Noi, I ragazzi dello zoo di Berlino. Questo per dimostrare che la descrizione dell’ambiente non è mai fine a sé stessa, redatta come fosse una guida turistica, ma dovrebbe far provare le sensazioni, le percezioni e l’emotività dei personaggi.

Pensiamo per esempio a un grande autore quale Albert Camus nel suo capolavoro Lo Straniero:

“Io guardavo la campagna intorno a me. Osservando le linee dei cipressi che portavano alle colline vicino al cielo, e quella terra rossa e verde, e quelle case rade e ben disegnate, capivo mamma. La sera, in quel paese, doveva essere come una tregua malinconica. Adesso, invece, quel sole esasperato faceva vibrare il paesaggio e lo rendeva disumano e deprimente.”

È incredibile come delle metafore, delle figure retoriche e la personificazione di un ambiente in una dualità magica rendano tutto più immenso e quasi “sacro” agli occhi di chi sfoglia le pagine del libro che ne racconta. Camus è un vero stratega in questo.

“Via, nel rossastro alone che sovrasta l’immenso agglomerato delle case, volano nella notte i torpidi fumi della nafta, sconvolte e dirupate bandiere, e un ritmo di cupa musica a martello le trascina lentamente verso le caverne del settentrione. […] la nera Milano antica e tenebrosa sta per riprenderla e inghiottirla, lei sparirà nel labirinto […] Ora davvero la città dorme, il sonno trasuda dalle centomila stanze e cola giù per i muri si spande come invisibile sudario per le strade deserte entra nelle macchine stanche che giacciono inerti in sterminate file lungo i marciapiedi, marea che lievita lentamente da un capo all’altro di Milano mescolando in un solo fiato il respiro del ricco e del pezzente, della prostituta e della suora, dell’atleta e del malato di cancro.”

Questa dualità e questo intreccio li possiamo ritrovare anche nel romanzo Un amore di Buzzanti, dove la grigia, caotica, frenetica e folle città di Milano, capoluogo e simobolo del Nord Italia, si materializza quasi nella personalità della protagonista Laide, la ragazzina. E questa, a sua volta, con il suo dinamismo, con il suo movimento a volte incerto, insicuro, le sue contraddizioni, il suo voler calpestare Dorigo sembra incarnare e ritrovare in sé stessa le caratteristiche della città.

Ovviamente la necessità della descrizione di un ambiente la ritroviamo un po’ in tutti i libri, ma specialmente in quello storico, dove dare un senso logico a ciò che stiamo scrivendo e delle coordinate sia temporali che spaziali è fondamentale, per dare appunto credibilità a ciò che stiamo leggendo o, nel caso dell’autore, scrivendo. L’esempio lampante è quello che troviamo proprio all’inizio de I promessi sposi

“Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien quasi a un tratto, tra un promontorio a destra e un’ampia costiera dall’altra parte.

Non abbiamo nessun tipo di indicazione storica, eppure il romanzo si apre con la descrizione dei luoghi in cui è ambientata la prima fase della storia. L’autore poi passa a descrivere la dura situazione delle regioni sottomesse alla dominazione spagnola, che si contrappone alla bellezza del paesaggio. Queste prime semplici frasi ci riportano agli anni in cui la storia d’amore tra Renzo e Lucia non si arrendeva neppure davanti alla peste nera e alle “cattiverie” di Don Rodrigo.

Non solo una descrizione che fa lo stesso gioco di quelle di Buzzanti e Camus è quella che racconta il castello dell’innominato, che sembra rappresentare una figura cupa, tenebrosa e forse non troppo simpatica:

Il castello dell’innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. […] Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto.”

Sicuramente la personificazione di luogo e persona che più mi ha affascinato è stata quella utilizzata da Victor Hugo nel parlare di Quasimodo, che altro non è che la personificazione della maestosa cattedrale andata a fuoco il 15 aprile 2019. Quel giorno confesso di aver pianto, perchè Notre Dame de Paris è la vera e propria rappresentazione dell’arte attraverso le figure umane. Insomma, era come se bruciassero Esmeralda, Quasimodo e Febo in quella tragica sera. E sapete perché? Perché chi legge la bellezza delle pagine che compongono la descrizione e la storia delle notti parigine, non può non sentirsi dentro quelle pagine. Infatti, grazie a un’analisi più attenta e contestualizzata storicamente, fornisce anche una chiave di lettura semplice ma infinita: Notre-Dame de Paris è un romanzo gotico su un edificio gotico. E la frase che più la rappresenta come simbolo e non solo come edificio dal mio punto di vista è questa:

“I cittadini trovavano là dentro tutto quello che abbisogna a una città ammodo come Parigi: una cappella per pregare Dio, un’aula dove si dava udienza e ci si opponeva all’occorrenza ai bravacci del re; e, nelle soffitte, un arsenale pieno di artiglierie.”

Notre Dame offre anche una descrizione stupenda della Corte dei Miracoli, che altro non è che la personificazione di uno dei personaggi più influenti del libro Gringorie:

“Il povero poeta diede un’occhiata all’intorno. Era proprio capitato in quella temutissima Corte dei Miracoli, dove mai un uomo ammodo era penetrato a quell’ora; cerchio magico dentro cui gli ufficiali dello Châtelet o i sergenti del prevosto che vi si avventuravano, sparivano ridotti a pezzetti; città di ladri, vergognosa cancrena di Parigi; fogna da cui ogni mattina rigurgitava e dove ogni notte tornava a stagnare quel fiume di vizi, di mendicità, di vagabondaggio di cui sono piene tutte le vie delle capitali; alveare mostruoso dove la sera rientravano con il bottino della giornata tutti i calabroni della società; falso ospedale per gli zingari, i frati sfratati, gli scolari discoli, la feccia d’ogni nazione, spagnoli, italiani, tedeschi d’ogni religione, ebrei, cristiani, maomettani, idolatri, coperti di finte piaghe, mendicanti di giorno si tramutavano in briganti di notte; immenso spogliatoio, insomma, per gli attori di quella eterna commedia di furto, di prostituzione e di assassinio che si recita nelle strade di Parigi.”

Ecco, con questo articolo ho voluto raccontarvi a modo mio quanto un’ambientazione descritta, seguendo sopratutto le emozioni e le sensazioni che un luogo richiama, sia molto più efficace di una semplice (oppure anche dettagliata) descrizione della fisicità di ciò che sta attorno a una storia. Insomma, un luogo va sentito, prima di essere semplicemente letto.