di Anastasia Cicciarello ed Elisa Proietti
“La Belva“, film d’azione che narra le vicende di Leonida, veterano di guerra a cui hanno sottratto la figlia, è su Netflix dal 27 Novembre. In brevissimo tempo, ha sbaragliato le classifiche mondiali, inserendosi addirittura nella Top 10 europea dei film più popolari della nota piattaforma online.
Il film
La storia si concentra sull’inseguimento tra il protagonista (interpretato da un magistrale Gifuni) e i rapitori della figlia Teresa. Durante le scene salienti, alcuni flashback ci riportano indietro al passato dell’uomo, svelandoci i particolari necessari a ricostruire il vissuto traumatico nell’esercito. Sul rapimento indaga Antonio Simonett, interpretato da Lino Musella, che inscena verosimilmente il ruolo dell’ispettore buono e arguto. In un’ora e trenta minuti, sono molte le tematiche di attualità che vengono evidenziate anche solo di sfuggita, riaprendo il dibattito sulla salute mentale degli ex militari e sul loro ruolo nella società italiana. Insomma, un film di “botte” che riesce anche a far riflettere e commuovere.
Intervista al regista Ludovico di Martino
Partiamo dall’inizio. Hai esordito con “Il nostro ultimo”, premiato in numerosi Festival. Com’è nata l’idea e la voglia di buttarsi in questa avventura, caricandosi sulle spalle ogni aspetto del film?
“Eravamo talmente piccoli e incoscienti a 21/22 anni che non sembrava una grande impresa. Non ci siamo resi conto nemmeno del lavoro che stavamo facendo. Fare riprese in giro per l’Italia è una cosa che in molti possono fare, il problema arriva dopo. Il montaggio è la cosa più difficile da fare. La problematica è quella distributiva, specie quando si parte con produzioni indipendenti. La parte complessa è sostenere un lavoro in giro per i Festival, trovare qualcuno che creda nel tuo progetto. La cosa bella del film oltre all’esperienza è stata la possibilità di farmi un biglietto da visita. Accollarsi tutto il lavoro è anche il bello dell’incoscienza.”
Quanto è distante il Ludovico di oggi dal regista alle prime armi del 2016?
“Non penso di essere così diverso, credo che il mutamento sia ancora in corso. Quello che ho imparato col tempo è elaborare un distacco, che sembra un termine negativo ma per me ha una connotazione positiva. Il distacco di cui parlo è fondamentale soprattutto sul set. Avere una visione universale è il compito del regista.”
Il cinema italiano dà spazio agli esordienti? Hai dovuto sgomitare per riuscire ad emergere?
“Per me è stato in realtà molto facile. Ho iniziato a collaborare con Groenlandia e Matteo Rovere già da molto tempo prima di fare “La Belva”. Ad un certo punto è venuto naturale pensare che fosse il momento di parlare di un film insieme.”
Parliamo appunto de “La belva”, film d’azione online su Netflix dal 27 novembre: quali sono stati i tuoi guru in questo senso? Ti ispiri a qualche regista in particolare?
“I miei riferimenti sono Lynch, Sergio Leone, Spielberg, Scorsese, Tarantino. Questi sono alcuni dei miei preferiti, per quanto facciano dei lavori molto diversi. Sono tra quelli che aspetto di vedere al cinema. Però mi piace guardare anche film brutti, penso che sia importante anche farsi un’idea di cosa non vorrei mai fare. Guardare solo i film migliori può essere anche poco spronante, perché ti confronti con modelli altissimi.”
I film di genere necessitano di determinati parametri per essere definiti tali. Penso ad esempio all’ispettore, il classico poliziotto buono e riflessivo, oppure al protagonista, che è ovviamente un picchiatore. Secondo te, questo fa cadere nel cliché penalizzando il potenziale del film, oppure è necessario?
“Sono sempre stato un gran fan dei paletti. Se un film d’azione ha determinati parametri non credo che sia un modo per ingabbiarti. Il rischio, se si va a mano libera, è quello di trovarsi in un mondo sconfinato. I paletti danno invece un canovaccio di base da seguire.”
Alcuni tra gli attori, sono alla prima esperienza cinematografica. È stata una scelta casuale o voluta? Se è stata voluta, quali sono le motivazioni?
“Sono stati selezionati gli attori che hanno fatto i provini migliori. L’indicazione era prendere volti nuovi. La libertà di fare casting scegliendo come abbiamo fatto noi è molto rara. Ci sono logiche di distribuzione che vanno in base al budget, perciò non sempre si prendono i migliori. Spesso il successo del film è legato ai nomi degli attori, è una logica classica. Si va al cinema perché si conosce l’attore. Per cui fare un film con Warner Bros con attori poco conosciuti non era scontato.”
Quanto è importante preparare gli attori a calarsi nella parte? Lasci che si facciano guidare dall’ispirazione o credi che la tecnica e l’esercizio siano più importanti?
“Ogni attore ha un suo modo di lavorare ed una sua personalità quindi non esiste secondo me un modo universale di fare. Devi creare un ponte personalizzato tra te e l’attore. Cerco di essere camaleontico e capire quali siano le caratteristiche e la personalità di chi ti trovi davanti. Dipende molto anche dall’età del protagonista. Ci sono ad esempio attori che per calarsi nella parte hanno bisogno di parlare tanto o altri che invece di parlare hanno bisogno di fare tanto. Con Gifuni ho detto da subito “Prepareremo il tuo personaggio in una palestra”. L’alimentazione è molto importante non solo per la dieta ma perché mangiare poco innervosisce l’attore, gli da quella rabbia che può servire al personaggio. La componente psicologia in questo caso è molto importante.”
Qual è la differenza tra action italiani e stranieri?
“Gli americani, ad esempio, ormai hanno trattato il genere in ogni modo e riescono anche a raccontarlo in maniera un po’ più ironica, prendendosi quasi in giro. Noi in Europa tendiamo ad una profondità maggiore. L’obiettivo anche ne “La Belva” è stato cercare di rappresentare la storia con il maggior realismo possibile.”
Il tuo film rientra pienamente nel genere o presenta alcune eccezioni?
“Il mio film nasce con l’idea di giocare con un genere che non ci appartiene, in Italia. Poi per renderlo credibile si è detto <<Caliamolo in una realtà nostrana >>!”
Quanto è difficile in generale rendere reali i personaggi – e di conseguenza le scene – in un film di azione? E tu hai riscontrato delle difficoltà specifiche?
“È un lavoro molto difficile. Gli elementi essenziali sono la scrittura e l’interpretazione dell’attore. Il regista in questo caso fa un po’ da mediatore. Il tono del film è importante. Un personaggio come Leonida non deve risultare come un eroe né come un invincibile: è un orso ferito. È una persona che si porta dietro questo mostro del passato che non riesce ad affrontare.”
Quali sono le caratteristiche che hanno reso Leonida Riva umano, anziché un super eroe distante, che compie gestri estremi e inverosimili?
“Di base c’è il trauma. Quel mostro che porta dentro e con cui non riesce a fare i conti. Non vuole che altri soffrano per causa sua, tanto da allontanarsi anche dalla sua famiglia pur amandola. L’elemento che mi piace è realizzare dei personaggi che sbagliano. E lo dimostra bene a due terzi del film quando dopo aver trovato il rapitore, fa un errore incredibile uccidendolo e commettendo un reato.”
Leonida Riva è un veterano con grosse difficoltà a gestire il suo trascorso emotivo. La salute mentale è ancora un grosso tabù nel cinema italiano. Perché hai scelto questa caratterizzazione?
“In fase di scrittura abbiamo cercato di focalizzarci sulla figura del reduce, la persona che sta fuori casa in guerra per trent’anni, poi torna a casa e comincia la vera battaglia. Abbiamo provato a cercare dei reduci per farci spiegare delle dinamiche specifiche ma non è stato facile. In America i reduci li trovi facilmente, è molto semplice contattarli. L’Italia, ripudiando la guerra, ha reso molto difficile renderli reperibili. Sono totalmente al di fuori della società, una sorta di fantasmi.”
Nelle ultime scene Leonida è in carcere. Guardando il film pare che tu voglia sottolineare la sua funzione educativa e il percorso riabilitativo per la persona che ha sbagliato. Credi di aver mostrato uno squarcio di realtà?
“Per me il fulcro del messaggio in quelle scene è la partecipazione al centro di ascolto, perché il carcere era qualcosa che doveva scontare per il reato commesso. La psicologa che mi ha fatto da consulente mi ha aiutato a capire quanto sia importante la fase iniziale in cui il soggetto decide di condividere la sua esperienza. La fine del film è l’inizio della redenzione del personaggio, che accetta il di iniziare il percorso riabilitativo mentre all’inizio del film si era rifiutato di parlare del suo trascorso con la psichiatra”.
Ascoltando la colonna sonora, sembra ci sia un filo che collega la serie ‘’Skam’’ a “La Belva” dal punto di vista musicale. Era una scelta voluta?
“I musicisti che hanno lavorato a Skam erano gli stessi che hanno lavorato al film. Abbiamo praticamente vissuto insieme per un periodo. Persino il luogo di registrazione è stato lo stesso. Quindi sì, vi è una sorta di collegamento ‘’spontaneo’’ musicale tra le due opere.”
Giornalista, lettrice professionista, editor. Ho incanalato la mia passione per la scrittura a scuola e da allora non mi sono più fermata. Ho studiato Scrittura e Giornalismo culturale e, periodicamente, partecipo a corsi di tecnica narrativa per tenermi aggiornata.
Abito in Calabria e la posizione invidiabile di Ardore, il mio paese, mi fa iniziare la giornata con l’ottimismo di chi si ritrova la salsedine tra i capelli tutto l’anno.