Ci risiamo, Scorsese did it again! Ancora una volta il celebre regista americano non perde un’occasione per esprimere il suo profondo dissenso nei confronti delle piattaforme di streaming. E ancora una volta tutti leggono tra le righe e titolano “Scorsese contro Netflix”, segnando un’ulteriore tappa di questo rapporto conflittuale d’amore-odio che manco i mitici Burton-Taylor (o i nostrani e più casarecci Rodriguez-De Martino) potrebbero stare al passo.
Ma veniamo ai fatti. La causa scatenante, o meglio, il pretesto, è un articolo – un saggio, quasi – commissionato da Harper’s Magazine a Martin Scorsese su un gigante della cinematografia mondiale, peraltro italiano, Federico Fellini.
Il buon Martin attacca (questa volta, l’articolo) immergendoci in una scena che pare uscir fuori direttamente dalla sceneggiatura di un suo film: siamo in un esterno newyorkese, nel Greenwich Village, per l’esattezza, cuore palpitante della Grande Mela, in particolare in quegli anni, alla fine dei ’50. La camera segue il protagonista, un giovane tardo adolescente, che tiene, sotto un braccio, dei libri, sotto l’altro una copia della rivista The Village Voice. E vaga per le strade di New York trovandosi, praticamente ad ogni angolo, un cinema che trasmette un capolavoro, da Les Cousins di Chabrol, a Ombre di Cassavetes, passando per Hiroshima mon amour, Godard, Truffaut, e tanti altri titoli che sfiderebbero le conoscenze dei cinefili attuali più di una partita a Trivial Pursuit. Per strada, a completare il quadro, un uomo distribuisce volantini su cui troneggia l’immagine di Anitona (Ekberg, sì, proprio lei), a pubblicizzare la prima de La Dolce Vita in un teatro a Broadway, con possibilità di riservare i posti, pagando biglietti a prezzi da teatro a Broadway – traduzione, cari-come-il-fuoco. Come se non bastasse, anche all’interno della rivista in mano al nostro protagonista campeggiano poster e annunci di film uno più bello, più mitico, più di qualità dell’altro.
Flashforward: un salto in avanti temporale ci riporta ai giorni nostri, dove, certo, è ben più misera la scelta. Non solo e non soltanto contingente – perché è ovvio che se volessimo fare un paragone e vagabondassimo anche noi per le vie di una qualsiasi città – ammesso e non concesso che tra coprifuochi e colori vari, si sia autorizzati a farlo – l’immagine che ci rimanderebbero i cinema desolatamente chiusi sarebbe di una tristezza e di una malinconia inaudita, rispetto all’affresco da abbondanza da cornucopia tratteggiato nelle parole di Scorsese. Ma, al di là delle restrizioni da Covid, anche a ritrovarsi al momento subito pre-pandemico la situazione non sarebbe stata particolarmente rosea. Verosimilmente, ci si sarebbe ritrovati tra cartelloni inneggianti al nuovo cinecomic – quasi sicuramente Marvel, giusto per far venire un mal di pancia a Martin, che notoriamente li adora [disclaimer: si sta facendo della facile ironia]. Intervallati, altrettanto sicuramente, da uno o due live action di vecchi cartoni animati Disney. E, presumibilmente, non molto altro più.
E qua Scorsese nostro parte in picchiata sferza una serie di colpi contro i grandi responsabili, secondo lui, del degrado qualitativo che sta patendo il cinema come arte in toto: le media company, come sempre interessate solo al lato commerciale e, su tutte, le compagnie di streaming, a causa delle quali la maggior parte delle persone ha smesso di andare al cinema per vederlo tranquillamente dai divani di casa. “Contenuto” è diventato un termine generico per indicare qualsiasi immagine in movimento – continua nei suoi affondi critici Scorsese – e ormai si privilegiano gli algoritmi che suggeriscono i film da guardare in base alle visioni precedenti piuttosto che i consigli di esperti che potrebbero ampliare gli orizzonti dei neofiti e del pubblico in generale.
La battaglia contro gli algoritmi può essere interpretata, dai più maliziosi, come alquanto di parte, poiché The Irishman, il film realizzato da Scorsese per Netflix, non si può dire abbia brillato nei risultati in quanto a visioni sulla piattaforma digitale. Secondo il suo ragionamento, questo è dovuto non tanto al mancato apprezzamento dell’opera in questione, quanto al fatto che, in base ai film visti in precedenza e al genere scelto con maggiore frequenza, verranno proposti in pratica sempre lo stesso tipo di titoli, senza possibilità per il fruitore di scoprire ciò che già non conosce e ama.
Per Scorsese un tempo la grande differenza era che il lavoro delle avanguardie, alla Godard, Bertolucci, Antonioni, Bergman e Warhol, in qualche modo ispirava e donava nuova vita a quello di registi più mainstream, alla Welles, Huston, Visconti. Adesso l’appiattimento è verso il basso e questo anche e soprattutto a causa di algoritmi (sempre loro!) che, per definizione, si basano su calcoli che trattano lo spettatore come un semplice consumatore.
Niente di nuovo, insomma: l’atavico dilemma tra quantitativo e qualitativo e la consueta predilezione attuale per il primo sul secondo. Non particolarmente innovativa neanche la soluzione proposta ma ritenere che solo ciò che è nuovo sia, di default, migliore fa con ogni probabilità parte della stessa mentalità e dello stesso “lavaggio del cervello” volto a creare prima e più di ogni altra cosa dei consumatori. Per questo, nonostante non sia una novità, la conclusione del buon old “goodfella” Scorsese non può che trovarci d’accordo: coloro che conoscono e amano il cinema e la sua storia devono condividere la loro passione con il maggior numero possibile di persone. E impegnarsi a far comprendere alle compagnie dei media che i film sono molto di più che semplici “prodotti”: sono tra i più grandi tesori della nostra cultura e come tali vanno considerati.
Ancora una volta l’educazione, intesa come trasmissione e condivisione della passione per la cultura, è la risposta.
Scrivo da sempre. Da quando ancora non sapevo farlo, e scrivevo segni magici sulle tende di mia nonna, che non sembrava particolarmente apprezzare. Da quando mio nonno mi faceva sedere con lui sul lettone, per insegnarmi a decifrare quei segni magici, e intanto recitava le parole scritte da altri, e a me sembravano suoni incantati, misteriosi custodi di segreti affascinanti e impenetrabili, che forse, un giorno lontano, sarei riuscita a comprendere e che, per il momento, mi limitavo ad assaporare sognante. Sogno ancora, tantissimo, e nel frattempo scrivo. Più che posso, ogni volta che posso, su ogni cosa mi appassioni, mi incuriosisca o, più semplicemente, mi venga incontro, magari suggerita da altri.
Scrivo per Hermes Magazine e per altri siti, su vari argomenti, genericamente raggruppabili sotto il termine di “cultura“. Scrivo anche racconti, favole, un blog che piano piano prende forma, un libro che l’ha presa da un po’ e mi è servito a continuare a ridere anche quando tutti intorno a me sembravano impazzire (lo trovate ancora su Amazon, mai fosse vogliate darmi una mano a non smettere di sognare).
Scrivo perché vorrei vivere facendolo ma scriverò sempre perché non riesco a vivere senza farlo.
Scrivo perché, come da bambina, sono affascinata dal potere di questi segni magici che si trasformano in immagini, in pensieri, in storie. E, come da bambina, sogno di possedere quella magia che permette loro di prendere vita dentro la testa e nell’immaginazione di chi li legge.