18 Marzo 2020 – 18 Marzo 2021, Bergamo sei bella come casa mia

Immagine copertina fonte: La repubblica.

Questo probabilmente non sarà un articolo, come tanti. Vi chiedo scusa già dall’inizio, perché dietro queste parole c’è una ragazza, che ha visto portarsi via dalle mani una provincia intera, una città intera e una valle intera, da un nemico, che non si vedeva nemmeno. Vi chiedo scusa, perché, qui dietro, oltre che una redattrice c’è anche una persona arrabbiata e triste per quello che ha visto, per quello che ha vissuto e sentito. Si avete letto bene. Sono arrabbiata perché si poteva fare di più e non si è fatto a sufficienza. Dentro questo articolo ci troverete tutto questo, oltre che a dati, numeri e parole. Quanto può influire sulla vita di tutti i giorni quella che è stata ed è la pandemia a Bergamo? Un anno fa, esattamente, come oggi, dei convogli militari, hanno trasportato le salme dei morti fuori dalla città verso forni crematori disponibili, perché all’interno di essa, oltre che alle terapie intensive e gli ospedali allo stremo, non c’era più posto nemmeno per i morti. Siamo stati l’epicentro della prima ondata e quanto pesa ancora oggi, un anno dopo, sull’anima e nel cuore questo triste primato. Vi basti sapere questo, che Bergamo, con le sue valli e la sua provincia e stata la seconda città più colpita dopo Wuhan.

Il sindaco Gori ha dichiarato che: “Per ogni deceduto per Covid-19 ce ne sono altri tre che sono morti in casa di polmonite e senza test”, e lo studioso di statistica Francesco Locatelli, bergamasco anche lui, ci tiene a ribadire che i contagi devono essere stati sottostimati di cinque o sei volte ed è proprio per questo motivo, insieme a una serie di mille altri fattori, che spiegherebbe l’alta letalità e il numero di decessi in questa zona a nord d’Italia.

Il tutto ha inizio il 23 febbraio, quando ad Alzano Lombardo e a Nembro vengono registrati i primi due casi di Coronavirus, due giorni dopo dall’individuazione del paziente uno a Codogno e quattro giorni dopo la partita Atalanta-Valencia, che con i suoi 45 mila spettatori a San Siro, secondo molti, avrebbe determinato l’accelerazione del contagio in tutta la regione. Quella data, per i bergamaschi diventerà il centro di polemiche e contestazioni in quanto, a Bergamo a differenza di Codogno, la zona rossa non è stata istituita da subito e con la puntualità, con la quale si sarebbe dovuta affermare. Così i medici della Val Seriana hanno continuato a lavorare senza tutte le protezioni e i dispositivi di sicurezza del caso. Da qui il contagio ed il virus si sono sparsi, per tutta la provincia, non facendo sconti a nessuno. I comuni di Nembro, Alzano e Albino hanno visto spegnersi una generazione intera, e cosi come loro, molti altri piccoli comuni della bassa bergamasca. Che cosa è rimasto di tutto questo? Si sono svuotate le città, ma si sono svuotate anche di respiri, di bellezza, di bambini. È calato il silenzio, la paura ed il terrore. Quello stesso terrore, che ogni volta che si sentivano risuonare le mille sirene delle ambulanze, si trasformava quasi in panico. Ricordo perfettamente i pianti, i momenti in cui avrei preferito fare qualcosa ed invece non si riusciva a fare niente. L’Italia cantava dai balconi, noi ci limitavamo a sorridere ai bambini, ogni volta che da una finestra appariva un arcobaleno colorato. Ricordo le telefonate, quei “Come stai?” sussurrati, perché si aveva anche timore a dire “Io sto bene!” a chi stava dall’altro capo del telefono, perché domani non lo sapevi se sarebbe stato uguale. Ricordo le persone in fila fuori dalle botteghe, le bombole di ossigeno che mancavano negli ospedali ma anche nelle case, e i bimbi in videochiamata, che facevano rumore, tanto rumore, perché non si sapeva bene ancora come strutturarle certe lezioni in didattica a distanza. Ricordo la sensazione d’impotenza di fronte a quei lampeggianti, ogni volta che passavano, fuori dalle mie finestre. Ricordo, che poi le sirene si sono addirittura spente, ma i numeri dei contagiati in ospedale continuavano a salire. Ricordo la mancanza degli abbracci, la mancanza di quelle strette che in quel momento potevano portarti conforto, ma sarebbero potute risultare letali. Ricordo il bollettino alla sera. “Quanti guariti?” “Quanti contagi?!” “Quanti se ne sono andati via oggi?!”. E poi ricordo le 22.00 del diciotto marzo. Quella sera, credo di aver estremamente realizzato nella mia testa, che tutto quell’assurdo che stavamo vivendo era la vera realtà. Che le persone morivano, che le bare nelle chiese, nei cimiteri, non ci stavano più, che i nostri morti avrebbero dovuti spostarsi in un’altra città per la cremazione. Perché se muori di Covid-19, non hai nemmeno la dignità di un vestito o di un’ultima carezza. E quella sera ho pianto tutte le lacrime in corpo. Ho pianto per tutte quelle volte che non avevo stretto più forte mio nonno, per tutte quelle volte che non ho prestato ascolto a chi volevo bene con l’attenzione che avrei dovuto rivolgergli. Per le pagine di giornale dedicate ai necrologi che ogni giorno sembravano aumentare sempre di più. Ho pianto per la distanza, perché restare lontani a volte fa male, eppure, in quel momento era necessario, non vedersi, chiudere le scuole, non assembrarsi, evitare il contatto fisico. Ci siamo fatti bastare gli occhi, quando le mascherine hanno cominciato, fortunatamente, a bastare per tutti. Le sere erano più silenziose di quanto dovessero essere in primavera. Le serrande abbassate. La fila silenziosa e distanziata fuori dalla farmacia, dal panettiere e dai supermercati. Non suonavano nemmeno più le campane.

C’è stato un momento in cui tutta la comunità cristiana cattolica si è ritrovata a pregare unita nel ricordo di “Papa Gioani” elevando la supplica per l’intercessione di Papa Roncalli per tutto quello che stava accadendo. Ci sono stati altri momenti dove ho visto altri convogli militari arrivare dal freddo della Russia, per aiutarci nel sanificare le nostre case di riposo. Ho visto la guerra ma non ho sentito bombe e nemmeno, mi sono ritrovata in equilibrio sulle macerie, ma avevo il cuore a pezzi per i troppi caduti, senza ferite visibili ad occhio nudo.

La vita ha cominciato a rifiorire dentro casa, ma il mondo era deserto e arido. Bergamo era deserta. La sua bellezza si stava spegnando agli occhi della gente, ma continuava ad esserci anche se non c’era nessuno a guardarla.

Eppure qualcuno Bergamo l’ha saputa ricostruire, e ha cominciato a farlo attraverso la costruzione dell’ospedale in fiera. Un hub Covid interamente dedicato al trattamento dei pazienti più severi. In dieci giorni, carpentieri, muratori, tecnici, pittori, volontari, alpini, gente comune e Ultrà dell’atalanta si sono ritrovati per portare a compimento, uno dei progetti più ambiziosi di questo periodo, a servizio della tutela salutare degli ammalati in terapia intensiva: l’ospedale in fiera. E poi, ancora gli ospedali da campo, piazzati fuori dagli Ospedali di Cremona, di Brescia e di altri piccoli comuni lombardi. Una gigantografia stanziava sulle pareti del Papa Giovanni XIII, un’infermiera, con la mascherina, cullava l’Italia intera. Dottori di base, medici ospedalieri, rianimatori, specialisti, volontari in crocerossa, infermieri ed il personale delle RSA, sempre in prima linea a discapito delle proprie vite, solo per chi si ammalava e non solo di Covid-19.

Perché Bergamo in quel momento rappresentava, la disperazione di una nazione, ma anche la cura e la dignità che la nostra bandiera, tramite i suoi colori, ha sempre portato e racchiuso in sé. Bergamo come l’Italia. Bergamo per l’Italia. Cosi come lo erano Brescia e Cremona. Perché in trincea, si scende e si risale sempre insieme. E non esistono province, regioni o nazioni.

Mola Mia” con la cadenza bergamasca è ancora quell’incoraggiamento che mi tengo ben salda al cuore, perché io, come milioni di altre persone, a Bergamo, in ragione ed in tutta Italia, in quell’ “Andrà tutto bene” non ho mai smesso di credere, nonostante tutto.