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Salvador Dalì, il genio che fece della sua vita un sogno

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Il surrealismo è una corrente che affascina sempre. Forse questo è anche merito di Salvador Dalì, l’artista che gli stessi surrealisti espulsero dal loro giro, perché ritenuto reazionario, non interessato alle questioni civili e lassista nei confronti della dittatura franchista.

Quei surrealisti come Breton che inneggiavano all’Amour Fou, all’esasperazione del romanticismo che diventava pazzia, e dentro quella condizione iniziare a vedere. Quei surrealisti che in qualche maniera erano connessi con le congiure sacre di Bataille e Masson, che intendevano combattere il fascismo con le loro mistiche antiascetiche.

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Fonte foto: biografieonline.it

Il surrealismo che prendeva Freud e ne faceva la cosmogonia di un’arte redentrice. Quello che indagava l’umano nei suoi terrori primigeni e lo faceva perché credeva che intervenendo sull’immagine si potesse portare l’inconscio verso la forza rivoluzionaria. Si lottava dentro i sogni.

Beh Salvador Dalì, in effetti, non apparteneva a quel surrealismo. Ma è proprio per questo che gli si deve il merito di aver reso davvero rivoluzionaria la corrente. Salvador Dalì può essere inteso come un artista pop. Ed essere pop significa essere davvero rivoluzionari. Chiaramente sarebbe forzato qualsiasi paragone con Andy Warhol.

Nel senso di Dalì lo si intende più per l’aderenza del suo surrealismo, in quella certa purezza e precisione artistica direttamente discendente dallo stile di Raffaello, con il presente. Dalì era un artista che molto spesso era odiato. Lui, l’artista che fece della sua vita un sogno ad occhi aperti, tramite le sue opere.

Una a cui sono molto legato si chiama Cannibalismo d’autunno del 1936.

Sullo sfondo i monti pirenei, nella parte in cui questi incontrano il mare. Al centro, in primo piano un essere che è ne comprende due, o forse due esseri che ne comprendono uno. Due figure umane ma deformate, proprio di quella sostanza onirica che contraddistingue sempre i soggetti del pittore catalano.

Si divorano e usano le forchette. C’è in quest’opera una smentita alle sue accuse, perché nel fondo si legge uno sguardo rivolto alla guerra civile che stava avvenendo in quegli anni.

Si intravedono lumache, formiche, vermi. Sono tutti parte dello stesso essere, perché in lui Salvador Dalì rappresenta la vita, che è per sua definizione autodivorante. La vita si nutre di vita. Diventa cosa sola, e lo fa dividendosi. La vita che sembra, vista dagli occhi di Dalì, qualcosa di assurdo, che fa senso.

C’è poi ovviamente La persistenza della memoria, un’opera del 1931 che indaga una delle questioni metafisiche centrali nella speculazione novecentesca: il Tempo. L’opera è conservata al MoMA di New York.

Un essere dall’occhio chiuso, con un corpo informe a forma di orecchio. Forse è il richiamo ai due sensi (la vista e l’udito) che più sono testimoni dell’essenza del tempo. L’occhio è chiuso quindi si presume che dorma. E proprio in quel sogno appaiono tre orologi molli. Uno poggiato sull’essere informe, un altro su un ramo e un altro ancora sopra un mobile in cui l’albero ha le radici. Su quello stesso mobile c’è un quarto orologio, ma chiuso e compatto, non molle.

I tre orologi molli, rappresentano tre durate soggettive, quello chiuso invece il tempo detto oggettivo. Il tempo soggettivo è l’unico che possa essere esperito. Il tempo però è qualcosa di oggettivo, che noi filtriamo come durata ai fini della nostra esistenza, ma che ha una sua ragione fisica che Albert Einstein spiegò approfonditamente con la sua teoria della relatività ristretta e generale. Ovviamente l’opera fa pensare anche alle considerazioni di Bergson.

La giraffa in fiamme, opera del 1937, ce l’ho avuta appesa (ovviamente non l’originale) nel salotto di una casa in cui vivevo tempo fa. Passavo ore a osservarla. È interessante come la giraffa stia in un terzo piano, quasi nello sfondo. Lontana. In primo piano c’è una donna che ricorda molto i personaggi di de Chirico per il suo volto da manichino. Il suo corpo ha otto cassetti. In secondo piano una sua simile.

I cassetti rappresentano l’entrata nella psiche. Quell’ordine o disordine interno, dove noi diventiamo armadi che contengono ricordi, pulsioni, rimossi, etc. Freud era considerato da Dalì, come colui che aveva descritto in forma moderna, con una nuova catalogazione, l’animo umano. Quell’inconscio era diventato descrivibile in una forma nuova. Per questo i cassetti. E vedo anche un riferimento alla priorità della psicoanalisi rispetto alla guerra. Forse anzi, in essa Dalì vede una risposta al tumulto bellico. In questo mi sembra perfettamente aderente al surrealismo di coloro da cui lui stesso volle differenziarsi dicendo “io sono il surrealismo”.

La giraffa invece è la rappresentazione simbolica della guerra. La sua statura supera quella della donna, perché va a galla, avviene in una veglia assurda ma reputata normale.

L’ultima opera che è doveroso menzionare è il Cristo di San Juan de la Cruz del 1951. Una croce con un Cristo non segnato dalle frustate e senza corona di spine, che dal cielo emana la sua luce. Il tramonto diventa lo sfondo, mentre sopra vi è solo nero, tenebra. Si sa che il mistico San Juan de la Cruz faceva coincidere gli estremi della luce e del buio, simboleggiando l’essere e il nulla.

Quella croce illumina ed è presenza, è vita. Ma essa appartiene anche alla tenebra che le sta dietro. Quel nulla coincide con l’essere. Quest’opera porta un’iconografia che diventa pretesto per raccontare l’assurdo della realtà. San Juan non si domandava perché l’essere e non il nulla, ma vedeva questi come integrati. All’estremo della luce il nulla e viceversa.

Salvador Dalì è un artista che mi viene da considerare, talvolta, come rinascimentale. Perché il suo fine non era un messaggio, ma l’arte stessa. Questo lo faceva colorando le pareti del potere, è vero. Diventando un imprenditore, un padrone. Ma è proprio questo l’amaro calice dell’arte. Quello Salvador Dalì serviva a Carmelo Bene dicendogli “tu non sei un genio. Hai ancora troppa sofferenza addosso“.

 


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