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In questo articolo vi parlerò di Antonia Pozzi, poetessa vissuta nei primi anni del ‘900. Di poesie ce ne sono e ne conosciamo a bizzeffe, ma non sempre hanno lo spazio che meritano. La stessa cosa vale anche per i loro autori. Alcuni di essi sono purtroppo poco conosciuti, e questo è uno di quei casi. Ma noi di Hermes Magazine siamo qui anche per questo, e quindi cominciamo subito a parlare di una poetessa dolce e fragile.
Per prima cosa bisogna fare una premessa importantissima. Nonostante le censure e un padre severo che cercò di metterla a tacere per difendere l’onore della famiglia, il talento di Antonia Pozzi era sotto gli occhi di tutti. Tra i tanti, Eugenio Montale sosteneva che fosse l’unica donna ad essere tra “i più grandi poeti del ‘900”.
Un animo tanto forte quanto fragile
Nata a Milano il 13 febbraio 1912, Antonia Pozzi frequentò il Liceo Ginnasio Manzoni. Durante i suoi studi si innamorò del professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi. Una storia che i suoi genitori, ben visti da tutti, le impedirono subito di vivere. Proprio a causa di questo amore taciuto e costretto ad essere seppellito nel suo cuore, Antonia iniziò a rifugiarsi nella natura da lei tanto amata e nella scrittura, trovando sfogo alla sua sofferenza nelle sue poesie. Parole che però non ebbero alcuna visibilità, perché all’epoca le opinioni e i pensieri delle donne venivano taciuti e censurati. Dopo essersi laureata in filologia, iniziò ad esprimersi anche riguardo ciò che purtroppo stava accadendo in quegli anni: la seconda guerra mondiale. Antifascista convinta, cominciò a scrivere dell’orrore che sempre più fu costretta a sopportare. Sempre consapevole del fatto che però la sua voce non sarebbe mai stata ascoltata.
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In seguito a tutta quella sofferenza provocata anche da un amore non corrisposto, Antonia capì che non avrebbe mai potuto reggere tutto quel dolore. Per lei fu troppo. Troppo dura non essere ascoltata da nessuno, troppo dura non essere amata. E, in ultimo ma non per importanza, arrivarono le leggi razziali che costrinsero alcuni suoi cari amici ad abbandonare l’Italia. La sua fragilità la portò a compiere un gesto terribile quando, nel dicembre 1938, si distese su un prato vicino all’abbazia di Chiaravalle. Poco prima aveva assunto una dose massiccia di barbiturici. Morì così, immersa nella sua amata natura in cui aveva tante volte trovato conforto. Aveva solo 26 anni.
“Dolomiti“, una delle sue opere più belle
Le sue poesie iniziarono ad essere conosciute solamente anni dopo. Esse sono di una rara delicatezza, ma al tempo stesso coraggiose e forti come una montagna. Non è un caso se ho utilizzato questa similitudine. Una delle più celebri s’intitola per l’appunto “Dolomiti”.
Non monti, anime di monti sono
queste pallide guglie, irrigidite
in volontà d’ascesa. E noi strisciamo
sull’ignota fermezza: a palmo a palmo,
con l’arcuata tensione delle dita,
con la piatta aderenza delle membra,
guadagnamo la roccia; con la fame
dei predatori, issiamo sulla pietra
il nostro corpo molle; ebbri d’immenso,
inalberiamo sopra l’irta vetta
la nostra fragilezza ardente. In basso,
la roccia dura piange. Dalle nere,
profonde crepe, cola un freddo pianto
di gocce chiare: e subito sparisce
sotto i massi franati. Ma, lì intorno,
un azzurro fiorire di miosotidi
tradisce l’umidore ed un remoto
lamento s’ode, ch’è come il singhiozzo
rattenuto, incessante, della terra.
Antonia la scrisse nell’agosto del 1929, alla tenera età di 17 anni. In questi versi da lei scritti mentre si trovava a Madonna di Campiglio, traspare immediatamente non solo l’amore verso la natura e la semplicità della vita, ma anche la sua incredibile sensibilità. Il desiderio di esprimere la propria fragilità, e al tempo stesso la voglia di superare i propri limiti. Una maturità precoce e una delicatezza disarmante che, ahinoi, ha voluto portar via con sé troppo presto.
Sono quella che in prima elementare si annoiava mentre la maestra spiegava le lettere dell’alfabeto ai suoi compagni di classe, perché le conosceva già da almeno un anno. Sin da quei tempi, durante i temi in classe sarei stata capace di riempire con pensieri e parole dieci fogli protocollo. Scrivere per me è un’esigenza, la mia costante, una delle poche cose che mi fanno realmente sentire giusta in questo mondo, insieme alla gentilezza e ai miei sorrisi. Trentatré anni, diplomata come tecnico dei servizi sociali e qualificata assistente di studio odontoiatrico, ho cambiato diverse volte strada, ma il bisogno di scrivere mi ha sempre seguito come se fosse la mia ombra.