Lo attendevamo in tanti, la curiosità era alle stelle, complici anche le foto dal set che spopolavano da mesi sui social nonché il trend di “Barbienheimer” che metteva in risalto una sorta di rivalità tra le due ormai rinomate produzioni, rispettivamente “Barbie” di Greta Gerwig e “Oppenheimer” di Christopher Nolan.
Ecco allora in Italia arrivare per primo “Barbie”. Il film che sta sbancando al botteghino è stato accolto da molti come un baluardo del femminismo e della decostruzione della società odierna, prettamente sessista e maschilista.
Prima di passare ad un’analisi più approfondita di questa osservazione, c’è da dire che nel complesso ci troviamo davanti una commedia senza dubbio intelligente, a tratti irriverente, simpatica e che intrattiene meravigliosamente bene. Vengono toccati diversi argomenti in maniera fluida, riuscendo a strappare una risata e persino qualche lacrimuccia (per i più sensibili), attraverso una trama per niente complessa ma che dona comunque non pochi spunti di riflessione.
“Barbie” è un blockbuster riuscitissimo che va visto almeno per scrupolo intellettuale, e non date retta a chi si ferma in superficie e vi dirà che si tratta di una “ca***a pazzesca”.
Merito del film, non a caso, è quello di aver diviso il pubblico e la critica sommariamente in due schieramenti: da un lato, quelli che gridano al capolavoro femminista e rappresentativo dell’idea di “donna”; dall’altro, quelli che ci vedono semplicemente una malcelata operazione di marketing per rilanciare il marchio Mattel.
Dove sta la verità? Beh, vi anticipo che non ce n’è una assoluta.
Ma forse si può cercare di interpretare il messaggio che “Barbie”, pur tra alcuni impedimenti, cerca di trasmettere al pubblico.
La trama ci porta a Barbieland, un mondo rovesciato ed estremizzato “al contrario” in cui le donne (o meglio le varie versioni di Barbie) sono le uniche a governare e gestire la comunità. In questo paese dove tutti gli edifici sembrano reduci di un’esplosione di zucchero filato, c’è la nostra protagonista Margot Robbie, la “Barbie Stereotipata” – laddove abbiamo “Barbie Presidentessa”, “Barbie Dottoressa”, “Barbie Sirena” (una bellissima Dua Lipa), e chi più ne ha più ne metta – che, come il nome ci fa intuire, è la Barbie per eccellenza, quella biondo platino standard che non ha un ruolo particolare nella società ma semplicemente rappresenta un modello di riferimento per tutte le altre.
Poi, c’è Ken. La voce narrante che nell’originale è di Hellen Mirren ci dice che lui esiste e ha significato soltanto se viene notato da Barbie, rappresentandone praticamente un accessorio. La mimica e l’espressività di Ryan Gosling si prestano perfettamente al ruolo del ragazzo bello e sciocco, tanto da rendere lo stesso Ken uno dei personaggi migliori ( sublimi le sue performance e il suo ” I am Kenough“).
Nel mezzo della sua vita sfavillante fatta di feste e completi Chanel, Barbie inizierà improvvisamente ad avere dei pensieri non proprio da “bambola”. Tra desideri di morte e accenni di cellulite, la nostra protagonista scoprirà di non essere più perfetta e che per ristabilire la normalità dovrà andare nel mondo reale, dove l’umana sua posseditrice (che si scoprirà essere America Ferrera) vive delle emozioni negative che si riversano in qualche modo sulla bambola stessa.
Ma al di là di questa storia, di per sé abbastanza semplice e banalotta, qual è il messaggio di “Barbie”, se ce n’è davvero uno?
Greta Gerwig si è lanciata in una missione teoricamente irrealizzabile, cioè quella di celebrare e allo stesso tempo parodiare uno dei prodotti più amati dai Millennials e oltre, e per di più lo ha fatto sotto la supervisione della Mattel stessa. Con l’aiuto alla sceneggiatura di Noah Baumbach, a sua volta regista e partner della Gerwig di lunga data, l’autrice di “Lady Bird” da furbetta si mostra consapevole di trattare un soggetto controverso e in un certo senso mette le mani avanti, ironizzando un po’ su tutto senza entrare effettivamente mai nel cuore della polemica.
Il più grande difetto del film sta forse nel voler fare di più di quanto effettivamente sia in grado di sostenere, e mettendo troppa carne a cuocere riesce a malapena a focalizzarsi su un vero messaggio finale. Non c’è quindi una grande profondità, la narrazione preserva una certa leggerezza e probabilmente incide molto lo zampino della Mattel che vi ha visto una grande occasione di marketing, puntando soprattutto a quella fetta di pubblico che è stata conquistata dalla moda Barbiecore e da quell’ondata di nostalgia infantile.
Ciò che importa è che ne risulta comunque una pellicola godibilissima, brillante ed autoironica quanto basta. Non dimentichiamo poi alcune sequenze che hanno un certo peso, come quella in cui Barbie vive il disagio dei commenti osceni fatti dai poliziotti durante l’arresto, o quella in cui America Ferrera ricorda alle Barbie ( e ricorda a noi) tutte le ingiustizie che spesso le donne sono costrette a subire nei diversi contesti sociali.
Una scena, poi, che forse tra tutte cerca di trasmettere un messaggio più profondo, e che più che con la politica ha a che fare con valori etici, è quella in cui Margot Robbie – dall’alto del suo splendore etereo – alla fermata dell’autobus si volta e scorgendo il volto di un’anziana signora esclama: “Sei bellissima!”, scoprendo per la prima volta che si può invecchiare e si può cambiare pur conservando il proprio fascino.
Un fascino che non è quello puramente estetico, ma quello dell’esperienza e della vita che ognuno di noi porta dentro di sé.
Dunque, dimenticatevi la ricerca spasmodica di un presunto codice o di una chiave di lettura segreta. “Barbie” è un film che va goduto in quanto opera ironica e intrattenitrice, arricchita qui è lì di qualche spunto riflessivo sulla nostra società patriarcale e sul ruolo della donna nel presente e nel futuro.
D’altronde, la stessa Robbie in un intervista dove le si chiedeva delle voci che giravano sullo spirito femminista del film, diceva:
“Femminista? Chi l’ha detto? Non so dire se lo sia o meno, quello che so è che è un film che contiene tante cose…”
Ecco, in un film come “Barbie”, che parla di una bambola in cui è insito il concetto di ” donna stereotipata”, sarebbe stato impossibile trasporre la logica di una Agnès Varda ( “Clèo de 5 à 7”, per citarne uno) o di una Mary Harron (“American Psycho”), o ancora – per un confronto con autrici più recenti – di una Phoebe Waller-Bridge (“Fleabag”), che applicano alle loro opere un valore etico e critico ben più autentico ed evidente.
Laureata in Archeologia, Storia delle Arti e Scienze del Patrimonio Culturale alla Federico II di Napoli. All’età di 5 anni volevo fare la “scrittrice”, mentre adesso non so cosa di preciso mi riserverà il futuro. Ma una cosa certa è che la scrittura risulta essere ancora una delle mie attività preferite, una delle poche che mi aiuta di tanto in tanto ad evadere dal mondo.