Chiedersi se sia nato prima il tarallo napoletano o pugliese è come chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina. Entrambi caratterizzati dalla tipica forma ad anello, dalle origini popolari e da un gusto unico, rappresentano i prodotti tipici più conosciuti e i souvenir gastronomici più acquistati.
L’incerta etimologia della parola ‘tarallo’
L’origine della parola “tarallo” ancora oggi resta avvolta nel mistero ma, come tutte le cose non definite, lascia spazio a varie ipotesi e supposizioni. C’è chi sostiene che derivi dal latino “torrère” (abbrustolire), altri dal francese “toral” (essiccatoio). Qualcuno, lasciandosi suggestionare dalla sua forma rotonda, lo fa risalire all’italico “tar” (avvolgere) o all’antico francese “danal” (pain rond, pane rotondo).
Manchevole di una risposta univoca, l’ipotesi più accreditata vedrebbe la parola “tarallo” discendere dall’etimo greco “daratos”, che indicava una sorta di pane. Se l’origine etimologica resta incerta, non lo fa di certo la sua preparazione che è ormai nota e, insieme ai natali antichi, ha contribuito a rendere il tarallo un simbolo distintivo sia della tradizione napoletana che di quella pugliese.
La leggenda della nascita del tarallo
Una ricetta datata 1400 quella del tarallo che deve la sua nascita, secondo la leggenda, alle mani di una madre che verteva in condizioni di povertà. La donna, mossa dall’esigenza di sfamare i suoi figli, decide di creare “qualcosa”, quel qualcosa che avrebbe poi sfamato un’intera generazione: il tarallo.
Racimolati quei pochi ingredienti a sua disposizione, comincia a mescolare farina, olio, sale e vino bianco. Crea un impasto, lo stende e ne ricava delle rudimentali ciambelline salate che, dopo essere lievitate, andrà a cuocere in forno. È fatta, habemus la prima ricetta dei taralli pugliesi.
Fonte foto: mangiarebuono.it
La donna, sempre secondo la leggenda, fortunatamente non tenne per sé la meravigliosa scoperta e la condivise con i vicini che vertevano nelle sue medesime condizioni. Ben presto la ricetta del tarallo si diffuse in tutta la Puglia e superandone i confini, viaggiando attraverso i secoli il tarallo divenne il prodotto da forno più consumato nel meridione.
Dalla leggenda alla storia
Le leggende si sa hanno sempre un fondo di verità ed effettivamente, traslando il racconto alle fonti storiche, molti elementi sembrerebbero combaciare.
Infatti, la fine del XV secolo fu caratterizzata da una serie di carestie e da uno “switch di potere”, dovuto alla caduta degli Angioini e la definitiva annessione di Taranto al Regno delle due Sicilie nonché dalla salita al trono degli Aragonesi, che fece sprofondare il meridione, e soprattutto la Puglia, in un periodo cupo caratterizzato da fame e stenti. I gradini più bassi della società ne furono maggiormente colpiti e dovettero ingegnarsi per sopravvivere: dalla necessità del nutrirsi nasce il tarallo pugliese.
Ma come ci insegna De André “una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale”, così la ricetta del tarallo supera i limiti geografici e “come una freccia dall’arco scocca vola veloce di bocca in bocca ” arriva a Napoli grazie ai commercianti e ai marinai che attraversano il Regno delle Due Sicilie.
Nel ventre di Napoli taralli sugna e pepe
Arrivati a Napoli i taralli mutano diventando più speziati e grassi, probabilmente per adattarsi ai gusti di una città vivace e in continua espansione.
Di ciò, una testimonianza puntuale ce la restituisce Matilde Serao che nella sua famosissima opera “Il Ventre di Napoli” descrive le zone circostanti al porto, meglio conosciute come “fondaci”, come quartieri popolari densi di persone denutrite e affamate. Proprio qui, dove la condizione di ci vive nel ventre di una città come Napoli si fa ossimoro, i fornai napoletani, ispirati dai taralli pugliesi, cominciarono a creare qualcosa di nuovo.
Fonte foto: napoli-turistica.com
Per creare “quel qualcosa di nuono2 destinato a sfamare i frequentatori dei “fondaci”, i fornai usarono lo “sfriddo”, gli scarti della pasta di pane, per preparare una delizia dal sapore intenso. Impastarono tutto con abbondante ‘nzogna, il tradizionale grasso di maiale, e una generosa dose di pepe. Modellarono l’impasto in strisce attorcigliate e diedero forma a piccole ciambelle, da cuocere accanto al pane.
Nacque così il tarallo ‘nzogn e pepe, un piccolo capolavoro di gusto che racconta la storia e l’anima della città.
Poveri negli ingredienti, grandiosi nel gusto
A Napoli la ricetta del tarallo cambia, questo perché si adatta alla disponibilità dei prodotti della tradizione povera locale. Nella città amata da Goethe nel tarallo, in quanto prodotto “povero”, lo strutto sostituisce l’olio, decisamente più costoso.
Questa differenza affonda le sue radici nella storia: mentre i taralli pugliesi nascono in terre feudali medievali, dove l’olio d’oliva è facilmente reperibile anche nelle case più umili, a Napoli l’olio è sempre stato un bene di lusso, specialmente sotto il dominio dei Borboni. Infatti, ai taralli fu riservato lo stesso destino delle pizze fritte che, fino agli anni del boom economico, venivano fritte nello strutto, e non nell’olio come vediamo fare oggi. Così il tarallo napoletano fin dalla sua nascita “si arrangia”, ma senza perdere il suo carattere deciso, grazie alla ricchezza della ‘nzogna e al gusto intenso del pepe, diventando uno degli emblemi della cucina popolare partenopea.
Tra l’altro, all’inizio dell’Ottocento, la ricetta del tarallo “‘nzogna e pepe” si arricchisce, verrà aggiunto un elemento che oggi definiremmo distintivo, fondamentale: la mandorla. Non sappiamo chi ebbe l’intuizione di aggiungerla ma, chiunque sia stato, a lui dobbiamo quell’equilibrio di gusto unico e irresistibile che la mandorla crea contrastando la piccantezza del pepe.
Apulia VS Partenope
Ebbene, complice un’esigenza comune, il tarallo pugliese e quello napoletano sono a tutti gli effetti gemelli diversi nati da una staffetta di eventi.
Ricostruirne la storia ci ha dato la possibilità di stabilire chi dei due fosse il primogenito e, proprio come accade per i gemelli, il tarallo pugliese è risultato essere, seppur per poco, più anziano rispetto al tarallo partenopeo. Tra i due, però, non esiste competizione perché entrambi figli di un’esigenza storica che si è fatta tradizione.
Sono una Boomer intrappolata nel corpo di una Millennial a cui piace scrivere. Ho un background variegato, sono eclettica e la semplicità non sempre fa parte di me (fortunatamente). Ho qualche laurea che attesta la mia specializzazione nel settore food, ma la verità è che mi piace comunicare il cibo in ogni sua forma, mi occupo di formazione, adoro la cultura coreana, la musica underground e vorrei essere perennemente affetta dalla sindrome di stendhal. A livello associazionistico, ricopro il ruolo di Responsabile Comunicazione, Marketing, Ufficio Stampa e Social Media Manager di Slow Food Roma & MULTI, viaggio alla scoperta delle culture e cotture che ci uniscono, evento a cura di Slow Food Roma & Lucy – Sulla cultura, ormai alla sua seconda edizione. Ho collaborato con media territotiali e riviste on line, ma Hermesmagazine è stata l’opportunità per entrare a far parte di una vera e propria redazione giornalistica ed avere uno spazio dove esprimermi e permettere alla mia natura dinamica di captare nuovi stimoli e trasformarli in occasioni per imparare e superare i miei limiti.