Coldplay, vent'anni di "A Rush of Blood to the Head"

Coldplay, ventidue anni di “A Rush of Blood to the Head”

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Coldplay sono una di quelle band a cui in fondo non riesci a non voler bene, soprattutto se sei stato uno di quelli che anni addietro si lasciava coccolare da quel romanticismo dolceamaro che caratterizzava buona parte delle loro melodie.  Nel corso degli ultimi dieci anni si sono fatti un po’ odiare, forse per il loro essere diventati tutto d’un tratto così sovrabbondantemente briosi  e stomachevolmente colorati o forse per i loro grandi inni dance ingiustificatamente energici ed esuberanti. Forse per entrambe le cose. Ma non è stato sempre così.

Chris Martin e Co. partirono con un repertorio semplicissimo, che puntava a quelle piccole cose, a quel sound essenziale che però riesce a rapire i sentimenti. Complici anche quei testi minimal, con frasi poco pretenziose, capaci però di comunicare delle sensazioni ben precise in una maniera trasparente e genuina.

I primi due album del quartetto londinese, che la cosa piaccia o meno, rappresentano tutt’oggi delle pietre miliari della storia del pop-rock, soprattutto di quello britannico dopo il declino del fenomeno britpop. Di lì in poi qualche cambiamento, sperimentazioni e altre validissime prove sparse qua e là all’interno dei successivi album, ma che gradualmente si discostano da quello che era il “marchio di fabbrica” originario della band.

Poi, nel 2021, è arrivato Music of the Spheres. E qui è meglio tacere.

Non è questa la sede per discuterne e non è scopo di questo articolo quello di causare in voi lettori – soprattutto se un po’ schizzinosi come la sottoscritta – nausee croniche o ulcere gastriche (e poi a questo ci pensano già ampiamente singoli come  Higher Power e Humankind).

Soffermiamoci invece su quanto di bello hanno saputo offrire i Coldplay in un album come A Rush of Blood to The Head, che proprio oggi compie 21 anni.

A Rush of Blood To The Head

Il primo album realizzato da quegli ‘allora’ studenti universitari in erba, giovani e sbarazzini, presentava un sound candido e incontaminato. Un intimismo melodico che prende ispirazione da autori come Bob Dylan, Neil Young, Leonard Cohen, se non dai Radiohead (Chris Martin ha più volte dichiarato che “The Bends” ha influenzato molto il suo modo di intendere la musica). Ma Parachutes era ancora un disco “timido”, che ci regalava sì dei bellissimi brani, soprattutto d’amore, ma che non portavano con sé significati di particolare rilevanza.

A Rush of Blood to The Head, oltre a mostrare rispetto al precedente album una maggiore cura e coesione interna, cerca di trasmettere dei significati più elaborati e profondi.  L’album esce ufficialmente nel 2002, a fine agosto in Europa e a fine ottobre negli USA. E il periodo in cui avvenne la registrazione fu determinante per il risultato finale.

Le sessioni in studio iniziarono dopo gli attacchi dell’11 settembre, un tempo in cui il mondo intero era allo sbando, e quindi la scrittura della maggior parte dei brani risentì di questo clima e si cercò di mettere in musica tutte le paure e i dubbi esistenziali causati da quel terribile evento.

L’album parte con la micidiale sequenza di chitarre e batteria di “Politik”, che si fanno martellanti ed incisive per esprimere un sentimento di drammaticità e di urgenza. Il brano è stato principalmente ispirato proprio dagli attacchi terroristici del 2001. Chris Martin ha affermato che la canzone è una sorta di “ode” all’evento, una sublimazione dei sentimenti di confusione e terrore provati dall’umanità in quel momento storico. “Voglio scrivere canzoni e fare cose, perché non sai mai cosa potrebbe succedere. Devi vivere il momento.” Dichiarò Martin in un’intervista.

Il ritornello canta “Open up your eyes“, invitandoci ad aprire gli occhi sul mondo per cercare di comprendere il presente. L’inquietudine del brano si risolve infine in un’esplosione orchestrale e ridestante, in cui Martin canta che la risposta risiede infine nell’amore. Intendendo non un amore qualsiasi, ma un sentimento viscerale che si estende alla famiglia e alle persone realmente care, le sole in grado di farci sentire “al sicuro” nonostante fuori non esista alcuna certezza.

Il singolo “In My Place”, pur non essendo originalissimo, ci riporta alle leggere atmosfere romantiche di “Yellow”, e rappresenta una dolce pausa in cui possiamo godere delle straordinarie doti vocali di Chris Martin (che riuscirebbe ad emozionarci anche leggendoci la lista della spesa).

Si ritorna in atmosfere più tetre e cupe con “God Put a Smile Upon your Face”, con il suo ciclico groove che ripresenta il tema della precarietà della vita, dell’assenza di risposte sui misteri dell’esistenza, misteri che Dio risolverebbe semplicemente mettendoci “un sorriso sulla faccia”.

The Scientist” è una ballata che basa la sua melodia su un giro di pianoforte ripetuto fino alla fine e doppiato poi dagli altri strumenti, con la guida del soave canto di Martin. Dal testo potrebbe sembrare un’altra classica canzone d’amore, in cui un ragazzo rimpiange una relazione finita. Ma in realtà, sulla linea dei precedenti, si tratta di un brano che ci invita a riflettere sulla caducità della vita e su come la scienza, con i suoi calcoli e i suoi numeri non possa colmare il vuoto di una perdita. Emblematico anche il video di questo secondo singolo, in cui Chris si trova con una sua presunta fidanzata in auto, quando avviene un incidente e la ragazza perde la vita. Tutto ciò viene raccontato dal brano, con una potenza e al tempo stesso una delicatezza straordinarie.

Quinta traccia è “Clocks”, uno dei singoli di maggior successo in assoluto per i Coldplay. Quel fluido e dolce riff di pianoforte ti riporta direttamente alla felicità e alla spensieratezza dell’infanzia, ma allo stesso tempo la sua velocità ti trascina, e ti corre dietro ricordandoti che la vita si muove rapidamente e bisogna imparare ad essere “puntuali” per riuscire ad assaporare ogni singolo momento.

Il misterioso “Daylight“, con le sue chitarre orientaleggianti,  insieme a “Warning Sign” ci fa vivere un momento di sogno ad occhi aperti, narrandoci tutte le sfumature dell’innamoramento. Il secondo in particolare parla di quei segnali di malessere, appunto quei warning signs che ci avvertono di un vuoto, della mancanza di una persona che ci corrode dentro.

Nel mezzo si trova “Green eyes”, forse la più scontata e fuori dal coro in tutto l’album, che tenta di rievocare il mood di “Yellow”.

L’ultima traccia, “Amsterdam”, sembra la giusta e mite chiusura, che dona un tono di speranza a questa sequenza di brani pervasi da un filo di inquietudine.

Ma la vera traccia che chiude alla perfezione il cerchio è la title track  “A Rush Of Blood To The Head “. Una melodia pervasa dalla purezza degli strumenti e dal timbro di Chris Martin che qui si fa basso, in omaggio al cantautore Johnny Cash. Il nome allude oscuramente al sentimento complessivo dell’album, che qui raggiunge l’apice dell’intensità.  “Un flusso di sangue alla testa”, inteso come un improvviso attacco di feroce irrazionalità, che genera un gesto impulsivo. Un’ immagine che si fa metafora della fragilità umana, una fragilità che però, come traspare dal testo,  non può essere evitata perché è parte integrante dell’essere umano.

Probabilmente sta tutta qui la risposta-non risposta ai quesiti che attraversano A Rush of Blood To The Head. Un album che 21 anni dopo la sua uscita,  resta un gioiellino di considerevole importanza. E nonostante i Coldplay abbiano deciso di intraprendere una strada che si discosta completamente da quello stile che li aveva formati, lo splendore dell’album in sé non è andato perso nel corso degli anni e fa sì che resti un riferimento fondamentale nella storia della musica recente.


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