I muri che proteggono: l’esempio della Danimarca che ha fatto ripartire il cuore di Eriksen e la riflessione delle coscienze sul “restare fuori dal dolore altrui”

muri abbiamo provato ad abbatterli tante volte, soprattutto quando vengono innalzati per dividere. Dividere uno stato. Dividere una città. Dividere delle vite. Ma nei secoli sono stati anche innalzati per proteggere, per tenere lontano, per evitare che le persone, o la vita altrui, infrangessero quel segmento di privacy che ci ritagliamo nella vita di tutti i giorni. E così dovrebbe sempre essere. Una lezione antica, semplice e che in molti teoricamente conoscono ma che in pochi applicano, e che si è convertita in strabordante attualità in un caldo pomeriggio di giugno.

Perché quella foto scattata in un momento di disperazione ce la ricorderemo a lungo. O almeno dovremmo. All’ interno di essa, o meglio dell’obiettivo del fotografo ci sono sette uomini, vestiti di un uniforme che ricorda i colori della loro bandiera, una maglia rossa con le maniche bianche.

Alcuni di questi ragazzi hanno le braccia intrecciate con quelle del compagno più vicino. Sono girati di spalle. Gli altri hanno gli occhi che gocciolano e le mani giunte in un gesto di preghiera. Quello che pero’ avviene dietro di loro si può soltanto intravedere. Ed è proprio per questa ragione che quel fotogramma istantaneo è diventato così necessario e prezioso per ognuno di noi.

A neanche un metro di distanza, pochi minuti prima Christian Eriksen è accasciato sul prato verde del Parken Stadium di Copenaghen  caplestatato da lui stesso per circa 40 minuti. Mentre rincorreva un goal o un pallone. Sopra di lui ci sono i medici e i paramedici sportivi che stanno provando a rianimarlo. Con un massaggio cardiaco, alternato all’utilizzo di un defibrillatore. Quello che si sta consumando al centro di quel cerchio oplitico lo sappiamo tutti. Dalle tribune dello stadio fino agli schermi  piatti delle nostre case oppure di fronte ai televisori dei bar. Ma nessuno riesce a vederla davvero. E sapete perché? Perché quel muro fatto di polpacci, di mani strette, di intrecci rossi e bianchi filtra l’immagine che tutti ci aspettiamo, ma che fortunatamente non riusciamo a vedere in un mondo che ci permette di vedere qualsiasi cos tramutandosi in una una diga che mette fine al flusso di foto e notizie di che ha iniziato a fuoriuscire da subito  già da qualche minuto. Si tengono stretti i giocatori, e proteggono la dignità di un uomo, che è ancora li, a terra che pero sta combattendo una delle sue partite piu faticose di sempre. Forse la piu complicata. Quella della vita.

Un gesto semplice, di protezione che si è trasformato in mero insegnamento di civiltà quella della nazionale danese che ha infranto questo ciclo errato e ha palesemente tappato il buco della serratura dal quale spiare il dolore altrui. Questi ragazzi ci hanno ricordato che “The show must go on” non per questo deve essere filmato, portato ovunque, raccontato da immagini che possono far male, preso e lanciato al mondo in pubblica in mondovisione. E ha reso meno banali e del tutto piu concrete leggi di vita come sensibilità, rispetto verso la vita altrui, e soprattutto riservatezza (questa sconosciuta????)

Tra tutti sabato Simon Kjaer ha dimostrato che a volte per essere dei supereroi non servono mantelli e poteri stratosferici, basta sapersi riconoscere umani e “capaci”. Anche quando t’investe il dolore piu grande. Il difensore del Milan e capitano della Danimarca ha fatto la cosa giusta, non una ma per tre volte di seguito, senza mai perdere la lucidità. Prima, dopo essersi precipitato dall’amico, a terra, gli ha liberato le vie aereie, Poi ha chiesto l’intervento immediato dei medici e ai suoi compagni di schierarsi intorno al fantasista nerazzuro per proteggerlo dagli occhi del mondo durante la sua battaglia per la vita. Infine si è precipitato a consolare la fidanzata di Eriksen, Sabrina, che sugli spalti del Parken Stadium era stretta nella morsa di una sofferenza mostruosa ed oscena ed era scesa fino al rettangolo verde per capire cosa stesse succedendo all’uomo che ama.

Kjaer non solo si è caricato sulle spalle il dolore, del suo amico, della sua famiglia e della sua Nazionale, e di tutti i tifosi. Ma ha protetto un po’ tutti quanti dal dolore. In un abbraccio, che in pochi hanno saputo cogliere.

Kajer difensare del Milan e Eriksen fantasista nerazzuro, inoltre del dramma di quest giornata ci hanno inseganto anche molto altro, e questa è una riflessione alla quale invito molti ultra e tifosi sfegatati delle due squadre del Derby della Madonnina (ma non solo)…

La prossima volta che pensate che tifare Milan o Inter sia solo questione di gioco e  cominciate ad imprecare e ad insultarvi tra di voi, ricordatevi di Simon Kajer, che per primo è intervenuto con Christian Eriksen. Che molto probabilmente gli ha pure salvato la vita. Ecco quando pensate ad insultarvi, ad augurarvi di morire, per una volta, una volta soltanto, pensate che prima di aver tra i piedi un pallone questi ragazzi, in qualche modo, sono soprattutto uomini. Ecco, per tutte le volte che urlate e fate cori come: “Interista devi morire” o “Milanista sparati” riflletteteci che non si tratta solo calcio, che non è solo tifo, a volte è pure vita vera. E questi due giocatori, dal derby della Madonnina a Copenaghen ve l’hanno ampiamente dimostrato.