Questioni dei genere alle Olimpiadi, nella boxe nello sport

Questioni di genere alle Olimpiadi e nello sport

La notizia è del  primo agosto scorso: la pugile azzurra Angela Carini ha abbandonato il match dopo soltanto 46 secondi dall’inizio perché colpita al naso dall’atleta algerina Imane Khelif:

“Ho perso l’equilibrio, non respiravo e quindi ho detto basta”… e poi ancora: “non mi sono arresa, ma un pugno mi ha fatto troppo male e dunque ho detto basta”.

Queste la dichiarazioni della pugile nata a Napoli nel 1998. Ma da qui è scoppiata la polemica, da subito virale sui social e che scuote ancora oggi l’opinione pubblica: l’algerina avrebbe avuto livelli di testosterone particolarmente alti che già ai Mondiali 2023 le avevano causato una squalifica dopo un test di idoneità di genere che avrebbe riscontrato in lei il cromosoma XY. Il  test era stato effettuato dall’ IBA (International Boxing Association), associazione non più riconosciuta dal Comitato Olimpico Internazionale (CIO) già dal 2019, quando  l’IBA  stessa fu sospesa per scandali e corruzione insieme al suo presidente russo  Umar  Kremlev.

L'incontro di boxe tra Angela Carini (Italia) e Imane Khelif (Algeria)

L'incontro di boxe tra Angela Carini (Italia) e Imane Khelif (Algeria) 
Fonte foto: corrieredellosport.it

Chi è Imane Khelif e le polemiche precedenti nel suo sport

Nata nel 1999 a Tiaret in Algeria, Khelif pratica la boxe sin da bambina. Ha partecipato ai Campionati Mondiali di pugilato femminile a Nuova Delhi nel 2018 arrivando 17esima e nel 2019 in Russia. A Tokyo nel 2020 è arrivata fino ai quarti di finale e nei Mondiali femminili a Istanbul nel 2022 è arrivata seconda. Alle Olimpiadi di Parigi è stata ammessa, insieme alla taiwanese Li Yu-Ting – anche lei finita nel mirino dell’ “Inquisizione sportiva” ai Mondiali 2023 perchè sospettata di essere androgina- perché “rispettano le norme di ammissibilità  e di iscrizione alla competizione, nonché tutte le norme mediche” – come attesta la Boxing Unit che appunto gestisce le regole di ammissione -comprovate da certificati medici timbrati e verificati almeno 3 mesi prima dell’inizio delle gare.

Le accuse contro l’atleta nello sport

Dunque tutto questo clima da “caccia alle streghe” che si respira sui social come anche nei dibattiti radiofonici o televisivi invece ha rispolverato vecchi cliché diventati veri e propri scheletri negli armadi: si è parlato di iperandroginismo, ossia di produzione eccessiva di testosterone da parte di un corpo femminile – senza pensare che ciò accade anche quando ci sono delle disfunzioni ormonali piuttosto frequenti nelle donne -di intersessualità, ossia di caratteristiche sessuali primarie e secondarie non riconducibili univocamente al genere maschile o a quello femminile, infine dell’ammissibilità delle persone transgender alle Olimpiadi.

Il binarismo retrogrado nello sport

Mark Adams, portavoce del CIO, ha appunto dichiarato di recente al Guardian che la questione “è incredibilmente complessa”, alludendo al fatto che ance il criterio di valutare i livelli di testosterone per decidere se un atleta possa competere nella “categoria” uomini o in quella delle donne è stato oggi messo in discussione. In un discorso di più ampie vedute in cui si parli di intersessualità, questa distinzione appare rigida e antiquata, anche perché non tutta la comunità scientifica riconosce una diretta correlazione tra forza fisica e livelli di testosterone e anche perché delle disfunzioni ormonali oggi sono piuttosto diffuse nella popolazione femminile per motivi non inerenti allo sport. Infine la regola per cui una persona transgender può competere in una categoria atletica  maschile o femminile solo se ha iniziato la transizione prima della pubertà (12 anni, come attesta la scala di Tanner)  sembra vacillare di fronte ad un’opinione pubblica che ha bisogno di respirare un’aria di inclusione e di ampiezza di vedute, che vada oltre le dimensioni o il volume degli organi sessuali e che non si irrigidisca su un limite d’età troppo prematuro per fare scelte di genere.

Un convegno  per rendere lo sport inclusivo

Di fronte al chiasso assordante di tutti questi dibattiti, di polemiche sterili e inutili, di proposte raccapriccianti, di misurini e bilancini che, attraverso calcoli infinitesimali, debbano sancire rigidamente l’unità di misura per classificare una personalità, quando invece l’ unico obiettivo da raggiungere, in piena libertà, è  semplicemente quello di fare sport, gareggiare e magari vincere una medaglia, mi viene in mente un interessante convegno seguito il 28 giugno scorso  nella Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università “La Sapienza” di Roma intitolato – quasi profeticamente! – “Giornalismo sportivo e persone LGBTQIA+”, a cui hanno partecipato il Prorettore Fabio Lucidi, Guido D’Ubaldo, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Ester Di Napoli, Presidente per la commissione delle Pari Opportunità e, tra i relatori, Roberto Baiocco, professore ordinario,   Rosario Coco, Presidente di Gaynet e Coord. Outsport e Alessandro Paesano, esperto di analisi dei media. L’omofobia nello sport, come anche la discriminazione di ogni genere, è radicata da sempre e lo è non solo nella mentalità ma anche nel modo di esprimersi.

Educare  e informare  correttamente all’accoglienza anche nello sport

Se non è vero che lo sport è per tutti e spesso non accoglie ma discrimina,  occorre in realtà cambiare la mentalità comune  di chi appartiene alle precedenti generazioni. Del pari, anche la narrazione dello sport e delle gare devono aprirsi e librarsi in un orizzonte quanto più sereno e inclusivo possibile. Ci vogliono luoghi, iniziative, associazioni che riescano ad  educare all’inclusività, al dibattito, ad accogliere chi fa “coming out”, dichiarando apertamente il proprio orientamento sessuale, sapendo di essere accolto in una “safe zone” in cui ci sia la corretta formazione e informazione. Le parole di chi scrive sui giornali e racconta la nostra società in costante trasformazione- anche di genere -devono essere certamente rispettose, ma in particolare accoglienti proprio  per chi affronta percorsi diversi in età diverse: non tutti devono decidere di fare questa “transizione”  – che sembra tanto quella “energetica” e non quella di esseri umani! – prima della pubertà e non tutti hanno la forza di riuscire a comunicarlo liberamente, senza provare vergogna o imbarazzo! E a chi decide di farlo non deve essere precluso né il piacere dello sport e delle gare né la gioia di condividere lo sport con la propria squadra, per paura di ritorsioni o di discriminazioni che spesso avvengono proprio negli spogliatoi. Anche le squadre e gli ambienti sportivi vanno formate e appositamente preparate a respingere l’omofobia, gli insulti, il bullismo e la discriminazione sessista.

Le buone pratiche future dello sport

In poche parole, occorre parlare di “buone pratiche” di gioco, di allenamento, di gara, mirate all’inclusione. Ne sono esempi  il tesseramento ALIAS (per utilizzare i trasporti pubblici  con il nome che meglio rappresenta un individuo, indipendentemente da quello anagrafico, ma usando quello che rappresenta meglio la propria identità di genere) da estendere anche al tesseramento sportivo; l’ “Outsport”(sito di notizie sportive che si occupa di questioni e persone LGBT) che si dovrebbe diffondere in tutti gli sport amatoriali e professionali; infine la frequenza  di sponsor di accoglienza in TV o per radio, come quello che recita: “Chi ama il pallone batte l’omofobia”, che è il messaggio che la Lega Nazionale Dilettanti ha diffuso per televisione in occasione del 17 maggio, giornata contro l’omofobia. In un panorama di continuo cambiamento in cui la società attuale è formata da generazioni fluide, queste iniziative suonano davvero in modo armonioso, accogliente e rispettoso verso tutti. E se si costruisse una vera e propria “rete” di salvataggio del rispetto, dell’inclusione e dell’accoglienza in tutti gli ambiti per avere uno sport davvero sano, che sia grado di puntare un po’ di più sull’importanza di partecipare tutti insieme e un po’ di meno su quella di vincere a tutti i costi?