La piccola Mummia: il mistero della bambina e del fiore bianco di Pompei

Foto: Parco Archeologico di Pompei

 

 

“Nihil durare potest tempore perpetuo
Cum bene sol nituit redditur oceano
Decrescit phoebe quae modo plena fuit
Ventorum feritas saepe fit aura levis

 

Nulla può durare in eterno.
Il sole dopo aver brillato si rituffa nell’oceano,
decresce la luna che poco fa era piena.
La furia dei venti sovente si tramuta in brezza leggera”

 

Così scrisse un anonimo poeta, autore di uno tra i più i diecimila graffiti ritrovati sulle mura di Pompei, e le cui parole riecheggiano oggi in note di antica malinconia. Riaffiorata tra noi all’incirca 1900 anni dopo la sua nota sventura, la celebre città sepolta nasconde ancora frammenti di inestimabile valore. Sprazzi di storia e di vita comune che di tanto in tanto riemergono nella loro innocenza, avvolti in quell’aurea sacra la cui immutabilità nel tempo par voler concederci il raro onore di essere testimoni di ciò che fu.

 

Mummia, se questo era davvero il suo nome, difficilmente avrebbe potuto immaginare che la sua incerta scrittura da bambina avrebbe emozionato popoli futuri; che esperti studiosi avrebbero scavato tra le mura di quel che era la sua casa e che gli amanti della storia, lettori e turisti, avrebbero sorriso commossi dinanzi alle poche testimonianze della sua esistenza. Quel che ci rimane è quel che ci racconta una delle più recenti scoperte del Parco Archeologico di Pompei, avvenuta durante i lavori di scavo di una villa in località Civita Giuliana, area a circa 700 metri a nord-ovest delle mura della città. L’operazione è in realtà figlia di un progetto che vede congiunti la Procura di Torre Annunziata con il procuratore Pierpaolo Filippelli, i carabinieri e il Parco Aercheologico, e che un anno fa condusse anche al ritrovamento di vari ambienti di servizio e di una stalla, ove furono riesumati i resti di tre cavalli e i loro finimenti.

L’accordo, partito nel 2018, era nato per fermare il continuo traffico illecito di reperti archeologici: l’antica villa, difatti, era purtroppo nelle mani un tombarolo. L’uomo, ora sotto processo, aveva costruito nel prato di casa un capanno di legno con lo scopo di nascondervi un pozzo, che tuttora scende fino al livello della villa. Qui i tombaroli avevano allestito un cantiere di lavoro e si erano inoltre adoperati per la creazione di un cunicolo lungo oltre 60 metri, che dalla zona del criptoportico raggiunge le stalle.

 

La grande tenuta suburbana era formata da un settore residenziale, il quale si predisponeva attorno ad un peristilio a pianta rettangolare: un porticato ne delimitava due lati, mentre il terzo presentava un lungo criptoportico coperto da una terrazza affacciata sui campi. Massimo Osanna, direttore del Parco Archeologico di Pompei e da poco nuovo direttore generale dei musei del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, descrive l’abitazione come un edificio “con ambienti riccamente affrescati e arredati, sontuose terrazze digradanti che si affacciavano sul golfo di Napoli e Capri, oltre ad un efficiente quartiere di servizio, con l’aia, i magazzini per l’olio e per il vino e ampi terreni fittamente coltivati”. Una dimora prestigiosa, dunque; ed è proprio qui che, a Maggio di quest’anno, ha fatto la sua apparizione il mistero della bimba e del fiore.

 

Una parete affrescata di un nero brillante, parte della volta di un criptoportico riemersa durante i recenti scavi; e un fiore bianco, dipinto delicatamente su quello sfondo così scuro, in quell’eleganza tipica delle mura di Pompei. E, infine, un graffito: “Mummia, sei lettere scritte malamente a mano; mano che gli studiosi pensano appartenere ad una bambina.

 

Si suppone, infatti, che la grande villa fosse di proprietà di un generale o di un alto magistrato militare, forse appartenente addirittura ai Mummii, influente famiglia romana la cui presenza a Pompei non era mai stata comprovata. Lo studio delle iscrizioni è stato affidato all’epigrafista Antonio Varone e il direttore Osanna rassicura il pubblico: la tenuta sarà aperta ai visitatori, assieme alle sue storie di vita passata e, probabilmente, a quelle di razzia moderna, come monito alle generazioni presenti e future. Inoltre, la grande quantità di materiale piroplastico che si impadronì delle sue stanze, unito al fatto che l’abitazione fu solo lievemente danneggiata dal terremoto, potrebbe aver contribuito ad un’alta qualità di conservazione e sembra quindi far ben sperare nel ritrovamento di importanti reperti.

 

Non è certo che cosa avesse voluto dire quel piccolo graffito su una parete di casa di duemila anni fa; eppure sono bastati pochi simboli di un tempo passato per smuovere il nostro lontano presente. Con la sua muta sontuosità, è questa inestimabile fortuna, cui ci accompagna da secoli, a rimembrarci l’effimerità del tempo e dei giorni, e il potere dei più semplici gesti.