Molti dei sopravvissuti e delle persone che sono stati deportati nei campi di sterminio nazisti hanno scelto il silenzio. E lo hanno fatto per anni ed anni. E pure per sempre. Ma come biasimarli?
Raccontare e descrivere quel dolore, quei soprusi e quegli abusi, le camere a gas, le scale della morte, la fame e la sete, le fucilazioni. Tutto questo significava ricordare, evocare i ricordi significava soffrire, soffrire valeva a dire mettersi alla ricerca di parole in grado di delimitarne il dolore e cercare un conforto che non poteva esistere, perché di fronte all’alienazione umana che hanno coloro che hanno visto tutto questo non ci sono parole, lacrime o dolore che tengano. Come loro, anche Liliana Segre ha deciso, per quarant’anni, di tacere, per provare a dimenticare, per lasciare quella parte della sua storia di vita lontana. Per non sentirsi diversa, per non doversi giustificare, ma soprattutto per continuare a vivere.
Liliana Segre nel 1944 non è più una persona, nessuno in un campo di concentramento è più umano, neppure i nazisti lo erano. E bestie non è un termine adeguato. Chi entrava in quei posti, o diventava guardia o un numero e questo era quello che stava capitando anche a lei. Preciso, indelebile e marchiato sul braccio: 75190, una cifra indelebile che trasforma le persone in oggetti, perché se non hai un nome non sei più nessuno. Partita dal famoso binario 21 della stazione di Milano – dove ora sorge un luogo che tutti dovrebbero visitare, il Memoriale della Shoah – stipata con tante altre persone su un vagone freddo verso una destinazione ignota, ha lasciato un banco vuoto, i libri ed i suoi affetti lontani, in un paese di campagna e in una scuola, che dopo le prime leggi razziali che erano state emesse, ha visto poche volte e che però a tenuto nel cuore anche quando giovanissima accudiva il nonno malato, insieme alla nonna Olga.
Delle 605 persone deportate insieme a Liliana in quel 1944 ne tornarono solo 22. Papà Alberto, tanto amato dall’allora piccola Liliana finì quasi subito nelle camere a gas come i nonni, Vittorio e Olga, che giunsero al campo poco dopo. Liliana si salvò lavorando come schiava. Molti aneddoti sono raccontati nei libri che sono stati scritti su di lei, e che lei stessa ha voluto lasciare ai postumi per non dimenticare.
Liliana si salvò anche camminando, quando dopo la liberazione avvenuta nel ’45 da parte degli americani dovette per diversi mesi, attraversare centinaia di chilometri, per tornare a casa. Molti morirono, lei no, lei restò attaccata alla vita senza mai abbattersi, e anche se accadeva, la speranza continuava a brillare nel suo cuore, nonostante i milioni di chilometri percorsi, dopo che i cancelli dei campi furono aperti. E fu proprio lungo quel percorso infinito, attraverso l’inferno e l’invisibilità, che Liliana capì davvero che donna sarebbe diventata. Davanti alla possibilità di vendicarsi decise di non comportarsi come i suoi assassini, preferendo la pace. Con se stessa e con il mondo.
Liliana Segre se la vedi o la senti parlare, proprio come è capitato a me, pensi che non sia semplicemente una donna che ha vissuto, ma pensi che quel vivere si sia trasformato in tutto quello che le restava. E che fosse esattamente quello di cui tutti quanti abbiamo bisogno. Nel suo intervento, credetemi, le parole che le uscivano dalle labbra, erano intrise di storia, tanto quanto erano potenti come la vita che se le era cucita addosso. “Vita” questa era la parola che pronunciava più sesso, nonostante l’abominio che in quegli anni, solo adolescente, aveva vissuto. Liliana è una donna piccola, una donna pacata con una voce tranquilla, che riesce a trasportanti nell’orrore di quello che ha vissuto, prendendoti per mano, e accarezzandoti, per non farti tremare. E’ questa la sua forza, il ricordo. Il ricordo e l’attaccamento alla vita.
C’è stato solo un attimo in cui la sua voce si è spezzata, perchè forse in quel momento la tristezza e sicuramente tutto quello che le è restato non bastava, ed è stato quando ha raccontato la storia di Janine.
“Poi vidi Janine. Era una ragazza francese, erano mesi che lavoravamo una accanto all’altra nella fabbrica di munizioni. Janine era addetta alla macchina che tagliava l’acciaio. Qualche giorno prima quella maledetta macchina le aveva tranciato le prime falangi di due dita. Lei andò davanti agli aguzzini, nuda, cercando di nascondere la sua mutilazione. Ma quelli le videro subito le dita ferite e presero il suo numero tatuato sul corpo nudo. Voleva dire che la mandavano a morire. Janine non sarebbe tornata nel campo. Janine non era un’estranea per me, la vedevo tutti i giorni, avevamo scambiato qualche frase, ci sorridevamo per salutarci. Eppure non le dissi niente. Non mi voltai quando la portarono via. Non le dissi addio. Avevo paura di uscire dall’invisibilità nella quale mi nascondevo, feci finta di niente e ricominciai a mettere una gamba dietro l’altra e camminare, pur di vivere. Racconto sempre la storia di Janine. È un rimorso che mi porto dentro. Il rimorso di non aver avuto il coraggio di dirle addio. Di farle sentire, in quel momento che Janine stava andando a morire, che la sua vita era importante per me. Che noi non eravamo come gli aguzzini ma ci sentivamo, ancora e nonostante tutto, capaci di amare. Invece non lo feci. Il rimorso non mi diede pace per tanto, tanto tempo. Sapevo che nel momento in cui non avevo avuto il coraggio di dire addio a Janine, avevano vinto loro, i nostri aguzzini, perché ci avevano privati della nostra umanità e della pietà verso un altro essere umano. Era questa la loro vittoria, era questo il loro obiettivo: annientare la nostra umanità.”
Tratto dal libro “Fino a quando la mia stella brillerà”
Leggendo queste parole si possono intuire principalmente due cose: il rimorso di Liliana per non aver tentato nemmeno di salutarla, o fare qualcosa per paura di essere presa, e nello stesso momento quel silenzio che tanto pesa e contemporaneamente attutisce il dolore. Quel silenzio, quel non salutare chi se ne va, oggi come oggi, ci accomuna solo un pochino a quello che ha vissuto Liliana, che sicuramente è stato molto più tragico, quello che però ci deve insegnare, questa vicenda e tutta la vita di questa donna meravigliosamente coraggiosa, nominata senatrice a vita, il 19 gennaio del 2018 dal presidente Sergio Mattarella è proprio questo: avere il coraggio di non dimenticare. Mai.
Mi chiamo Alessia, scrivo per difendermi, per proteggermi e per dare una mia visione del mondo, anche se in realtà io, una visuale su tutto quello che accade, non ce l’ho, e probabilmente non l’ho mai avuta. Ho paura di ritrovarmi e preferisco perdermi.
Culturalmente distante dal pensiero comune. Emotivamente sbagliata. Poeticamente scorretta. Fiore di loto, nel sentiero color glicine. Crisantemo all’occorrenza. Ho più paure che scuse. Mi limito a scrivere e leggere la vita. Mi piace abbracciare Biscotto, anche da lontano. Anche se per il mondo di oggi sembra tutto più difficile.
Scrivo per questo magazine da circa un anno. Ho pubblicato anche un libro ( ma non mi va di dire il titolo perché qualcuno penserebbe “pubblicità occulta”). Ho aperto un mio blog personale: “Il Libroletto” dove recensisco libri per passione.