La tragedia greca e l’arte teatrale

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Certamente l’arte teatrale è una delle forme espressive più remote. Le sue origini possono essere fatte risalire addirittura a 40.000 anni fa. La convinzione diffusa che nasca con l’antica Grecia non è propriamente esatta. Durante quel periodo si è operata una sorta di “catalogazione” delle discipline millenarie che si erano sviluppate. I primi drammi rituali, o le danze religiose, i misteri orgiastici, i miti narrati dagli aedi, risalgono a molto prima. Si può dire che in quelle tradizioni possiamo scorgere una lunga catena che è andata a definire un’impronta storica nel 600 a.C., tale da determinare l’edificazione di quella che sarebbe stata la Tragedia Greca. Esattamente come Omero aveva raccolto nelle sue epiche le storie tramandate oralmente nei secoli precedenti dagli aedi, così la tragedia istituzionalizza un’arte precedentemente vissuta come fenomeno marginale. Le feste dionisiache crescono, includono al proprio interno la rappresentazione, diventano un evento riconosciuto dallo Stato. In base a quanto possiamo ricavare dalla Poetica di Aristotele e dalle Storie di Erodoto, la tragedia greca discende dal canto lirico corale (accompagnato dalle danze) chiamato “ditirambo”. Queste forme di rappresentazione erano composte dagli exarchontes, ovvero i coreuti. Ad essi si alternava l’exarchon che presentava una monodia, e che sarebbe evoluto poi nella figura narrante, ovvero l’attore. Tespi, che fu il primo tragediografo, utilizzava infatti un solo attore. Eschilo ampliò successivamente il numero degli attori in due, e con Sofocle si ebbe l’aggiunta del terzo attore. Con il tempo l’evoluzione della tragedia va spostandosi sempre più dalla forma ritualistica per abbracciare il teatro, una struttura laica e partecipata da tutto il demos. La tragedia, che deriva etimologicamente da tragoi “coro di capri” era un evento principalmente musicale, dove la parola cantata narrava una storia. Erano rappresentate principalmente in occasione delle Grandi Dionisie, festa ricorrente ogni marzo in Grecia, occasione in cui ciascun autore presentava una “tetralogia” composta di quattro opere. Era proprio una sorta di “festival” partecipato da tutti.

Nasceva proprio in quel periodo anche la struttura architettonica chiamata Teatro. Bisogna innanzitutto specificare che questa era adibita in funzione dell’amplificazione vocale. Attori e coreuti possedevano maschere costruite in maniera tale che il suono potesse avere risonanza. Addestrati all’utilizzo dei risonatori naturali, dunque conoscitori della fisiologia e dell’uso della cavità orale come strumento, utilizzavano la protesi della maschera. La sala era un’ulteriore estensione, e si componeva delle cavee, gradinate dove sedevano gli spettatori e che assunsero nel corso degli anni forme diverse (trapezoidali, circolari). La voce non doveva soltanto trasmettere i contenuti, ma anche l’essenza emotiva, come un media che vibrava nelle viscere di chi assisteva perché questi potessero prendere parte interamente alla rappresentazione.

Chi aveva il ruolo di attore si esibiva dalla skene, una piattaforma che veniva utilizzata sia come “camerino” che come spazio scenografico. Davanti, lontana, era disposta l’orchestra, detta paraskenia. Il coro era composto di tre file composte ciascuna da cinque coreuti, che intervenivano durante gli stasimi. Gli attori stavano dietro, e occupavano il posto della narrazione. Quel che resta a noi di queste opere sono solo gli scritti ma all’epoca erano veri e propri canti. Liturgie popolari e laiche, fino a Euripide che può essere pensato come il primo drammaturgo nel senso corrente. Pare di vedere un lento processo di assorbimento da parte dello Stato, di qualcosa che proveniva dal mito, dal mistero. Già Aristotele inizierà a indicare la tragedia come un’opera letteraria, capace di indipendenza dalla rappresentazione. C’è anche da dire, però, che quella forma rappresentata copriva per Aristotele una posizione centrale nell’intervento sull’ordine sociale. La tragedia provocava la catarsi, ovvero quell’evento di liberazione dalla propria colpa, causato dalla stessa rappresentazione di uno specifico errore. Ad esempio Edipo re mostra i tabù dell’incesto e del parricidio, così generando identificazione nello spettatore il quale proietta verso l’esterno il suo impulso ottenendo un aumento della propria coscienza. Si può dire infatti che la tragedia abbia contribuito al superamento della mente bicamerale, secondo quel processo ben spiegato dallo psicologo Jaynes. Non è un caso che Freud abbia attinto da divese tragedie per spiegare le più grandi questioni della psicanalisi. La tragedia era, se vogliamo, una forma di psicoanalisi ante-litteram. Vi era in essa una funzione terapeutica riferita alla comunità dove quel mondo che è anche mito, secondo quanto sostenne successivamente Sallustio, emergeva. Gli uomini allora sapevano che la realtà è difficilmente afferrabile, e che possiamo soltanto osservare la sua forma approssimata nella specularità di ciò che possiamo proiettare. Tramite la mimesis, dunque nell’imitazione, diventava possibile scoprire la propria presenza. Individuarsi come parti di una comunità. Parti, dunque individui, completamente interdipendenti dagli altri. Iniziava a esistere uno schermo interno dove il proprio desiderio prendeva forma e iniziava a comporre la Storia della nostra Civiltà Occidentale.


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