Che gente questi “Papalagi”!

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Fonte immagini: per l'immagine di testa, dettaglio di vignetta dell'edizione americana di Papalagi; per essa, per le altre due vignette e per la copertina illustrata di tale versione non è stato possibile risalire né all'autore né all'editore pertanto © degli aventi diritti, se ancora in essere; per la copertina originale della seconda edizione, © 1920-1922 Erich Scheurmann. Sebbene per il Copyright Act tale opera risulti ormai libera dal vincolo del copyright, per la Convenzione universale sul diritto d'autore essa risulterà protetta ancora fino al 4 maggio 2027.

Papalagi, l’ “uomo bianco”

In lingua Samoa, Papalagi significa “uomo bianco”. Il termine viene usato abbondantemente da Tuiavii di Tiavea, capo polinesiano che visitò il continente europeo all’inizio del ‘900 (presumibilmente tra il 1909 ed il 1913), e che dopo essere entrato a contatto con usi e costumi del cosiddetto uomo civilizzato, il “papalagi”, appunto, sbigottito e spaventato da ciò che aveva avuto modo di vedere al rientro in patria si premurò di mettere in guardia il proprio popolo dal fascino perverso del mondo occidentale, per lui tanto alieno e angosciante.

Le stranezze degli uomini bianchi

Gli argomenti sono facilmente intuibili: denaro, lavoro, potere; e in generale tutto quello che fa parte di una realtà assoggettata ormai a usi e costumi che non sempre sono totalmente percepibili da chi vi è totalmente estraneo. Tuiavii critica le molte stuoie che i bianchi usano e la loro abitudine di coprirvicisi; non comprende il senso delle tante “scatole di pietra” divise in altre scatole ove i papalagi vivono, trova del tutto insensato l’attaccamento per il “tondo metallo” e la “carta pesante, tutte cose che impoveriscono invece di arricchire.

Ed è fuorviato, l’uomo bianco, dalla brama di possesso che sembra essersi impadronita di lui: egli non ha tempo, ha reso dio debole e impotente, è impegnato a lavorare incredibilmente di più di quel che gli serve per sostentare lui e i suoi prossimi. E soprattutto, è terrorizzato da questa grave malattia del papalagi che è il pensare, pensare troppo, pensare continuamente.

La trascrizione della testimonianza di Tuiavii

Non è mai stata intenzione di Tuiavii, naturalmente, mettere nero su bianco i contenuti dei suoi discorsi (questa del resto è una usanza papalagi), né risulta essere stato messo al corrente del fatto che ciò sia stato fatto. È stato il traduttore Erich Scheurmann (amico di Hermann Hesse, egli fu scrittore ma anche pittore. Stava viaggiando in Polinesia, allora colonia tedesca, per sfuggire agli orrori della prima guerra mondiale), che aveva avuto modo di vedere e conoscere Tuiavii in Polinesia, a compiere tale trascrizione e a rendere il testo noto in Europa, con la sua pubblicazione nel 1920 in Germania. Papalagi.

Un trattato etnologico esilarante e atroce

Il libro di cui parliamo oggi è una delle tante opere che dopo i primi fasti hanno giaciuto semidimenticate sotto la polvere dei decenni, per poi avere un forte revival negli anni settanta e ottanta nel contesto delle controculture giovanili ed alternative. In Italia la sua rinascita si ebbe negli anni novanta nella famosa collana Millelire, che permetteva a nuovi lettori di accedere a grandi letture con una spesa tutto sommato contenuta (Millelire pubblicò anche la versione completa della Divina Commedia, tanto per dire. A mille lire, appunto). 

Proprio nella quarta di copertina di tale edizione possiamo leggere: “Dietro l’apparente leggerezza e bonarietà, Papalagi è un trattato etnologico esilarante e atroce sulla perversione e i falsi miti della tribù dei bianchi”. Ed è vero. Verissimo.

Una fuga letteraria dal mondo reale

Il problema è che probabilmente Tuiavii non è mai esistito. È visione comune, oggi, quella di accettare Papalagi come opera di finzione proprio di Erich Scheurmann, autore e non traduttore e curatore (alcuni dicono nemmeno particolarmente originale, dato che sembrerebbe ispirato direttamente a un romanzo di Hans Paasche del 1912, Lukanga Mukara. Viaggio di studio nella Germania profonda. Noi il libro di Paasche non l’abbiamo letto e pertanto non possiamo né confermare né smentire, ma solo riportare).

Questa visione non deve smontare l’importanza di un testo come questo. Anzi, tutt’altro. La sua importanza permane. Resta magari da capire quale essa sia. Alcuni studiosi vorrebbero quindi ricercare nell’opera di Scheurmann una critica sociale alle istituzioni del paese in cui viveva l’autore, ma sono smontati da altri che segnalano come in essa sembri mancare del tutto uno sguardo critico; perché ciò sia vero, Scheurmann oltre a indicare i mali della società dovrebbe analizzarli, individuarne le cause, e una volta fatto questo immaginarne anche le soluzioni. Egli invece non fa nulla di tutto ciò: si limita a costruire un puro esempio di fuga letteraria dal mondo reale in cui vive (la Germania degli anni ’10-’20 non doveva essere esattamente il paradiso) verso un mondo immaginario e solo forse ideale. Un mondo diverso costruito unicamente per dimostrare come il proprio non sia assennato come vorrebbe millantare.

Una rappresentazione distorta?

In tal senso, la critica più feroce che viene volta oggi a un libro come Papalagi è quello di far pagare un prezzo pesante alle persone che tale opera sceglie di rappresentare in maniera distorta (i polinesiani). Quella di Scheurmann si può considerare, oggi, un’operazione di “appropriazione culturale, ma l’analisi è probabilmente ingiusta, a partire dal fatto che per prima cosa bisogna contestualizzare l’epoca in cui è stato scritto.

I samoani in effetti sono persone reali, come noi. Di sicuro essi non avrebbero apprezzato poi così tanto la loro rappresentazione come quella di idioti dotati di visioni del mondo e della vita infantili e innocenti, del tutto scevri dal consumismo e dall’economia. Chiaramente sapevano cosa significasse vestirsi, vivere in case di mattoni (sebbene facessero tutte queste cose in maniera diversa da noi), e gli era noto l’uso del denaro.

Una critica ancora più feroce all’autore vorrebbe, attraverso gli occhi di Scheurmann, vedere nei samoani il popolo perfetto adatto alla colonizzazione e allo sfruttamento, e come riprova di ciò viene spesso riportato che Scheurmann fosse diventato, nei tristemente noti anni seguenti, un sostenitore del nazismo; ma è un paragone che non regge: se l’autore avesse voluto concepire questa assoluta perfezione nel popolo colonizzatore di cui faceva anagraficamente parte (probabilmente suo malgrado, come tutti quelli che hanno vissuto tali anni complicati che ancora sfuggono alla comprensione sociologica), non avrebbe certamente descritto il suo mondo come tanto folle.

Prova della sua antipatia verso tale pensiero, e anche della propria avversione nei confronti della guerra, fu il fatto che egli ripiegò negli USA per evitare la Seconda guerra mondiale, dove avrebbe svolto l’attività di predicatore presso la Croce Rossa tedesca. Qui avrebbe fatto pubblicare la ben più famosa nuova edizione del libro, quella illustrata (contro tale pubblicazione gli fu mossa per ben due volte l’accusa di plagio). Tali disegni sono fortemente somiglianti allo stile di Chic Young, ma non è lui; ci è stato comunque impossibile risalire all’autore. La stessa copertina è stata realizzata in stile fumettistico (con tanto di baloon), a voler sottolineare l’intento satirico dell’opera.

Scheurmann non cercava di descrivere i Samoani, ma semplicemente se stesso e il suo mondo. La realtà è che Papalagi aveva bisogno di una visione semplice del mondo: quella che l’autore cercava era un’angolatura diversa, capace di mostrare come certi valori che questa società si è data risultino a volte inconsistenti per raccontare un trattato etnologico al contempo esilarante e atroce sulle perversioni e i falsi miti del mondo in cui tutti noi siamo immersi, i nostri per primi (i mondo movie degli anni ’60 riprenderanno questa stessa usanza). La scelta dei samoani, visti come popolo lontano geograficamente ma soprattutto socialmente diventa quindi una attribuzione casuale, forzata dalla visione dei tempi e nulla di più. Tramite il metodo dello “spaesamento” Papalagi coglie in pieno il concetto di relatività culturale.

L’autocritica sulla nostra società

La scelta antopologica dell’autore è confermata dal fatto che, anche se lo sguardo critico è del tutto assente, durante la rilettura di Tuiavii riesce a formarsi in maniera molto chiara nella mente di chi legge un quadro assolutamente perfetto e attuale della nostra società e dell’uomo civilizzato.

Il fatto che a un secolo di distanza tale visione sia ancora del tutto riconoscibile non gioca affatto a nostro favore: abbiamo ancora tanta strada da fare, tutti. Il sistema ordinato di leggi e norme, per quello che ne concerne il funzionamento della nostra società, non solo è guidato dai tempi e dalle situazioni (che determinano obiettivi, non per forza sempre uguali) ma anche dal preciso tipo di società che vogliamo andare a prendere in considerazione.

Ci sono un numero spropositato di società, che infine facciamo convergere nella nostra, di tutti. Ma basta non far parte di un’altra determinata società per comprendere quanto essa possa essere diversa da quello che noi intendiamo per tale. Se vi diranno che il libro è un falso perché è stato scritto dallo stesso Scheurmann, non dategli retta. Il libro è vero, verissimo. Il grande capo Tuiavii siamo noi quando apriamo gli occhi.

Papalagi è un libro straniante che adorerete. Esso in parole povere descrive la nostra società come fosse un mondo di pazzi inconsueti, e il bello è che riesce quasi a convincercene. Allo stesso modo, però, e questo è il bello, mentre leggiamo non possiamo riuscire a percepire normale, nostra, nemmeno la società di Tuiavii, che agli occhi del lettore dovrebbe apparire, alla fine, quella normale. Straniante, appunto.

 


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