Everything in its right place è la prima inconfondibile traccia di Kid A, il quarto album in studio dei Radiohead pubblicato nel 2000, che determinò la svolta elettronica della storica band inglese (per il ventesimo anniversario di questo e di Amnesiac ci sono, tra l’altro, importanti progetti in programma).
Come quasi ogni brano di stampo radioheadiano ci troviamo davanti un testo non immediatamente accesibile, che sembra privo di senso; ma chi conosce i Radiohead sa che dietro quelle frasi apparentemente criptiche c’è sempre un significato straordinariamente profondo e attuale. Basta solo sforzare un po’ l’immaginazione.
Ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa
È emblematico che un testo così ermetico sia stato scritto in un momento di burnout che Thom Yorke e gli altri membri della band stavano vivendo a causa dell’eccessivo stress da performance, in un susseguirsi senza soste di live e concerti, conseguenza dello straordinario successo ottenuto con Ok Computer.
In particolare Yorke ha raccontato che al termine di uno dei tanti concerti, dopo aver lasciato il palco, era tornato nel suo camerino e si era sentito straniato e sovrastato al tempo stesso, quasi indifeso, di fronte all’improvvisa e inaspettata fama. È così che nasce, prendendo spunto da un proverbio antico (che recita “ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa”) la frase “everything in its right place”, appunto “ogni cosa al suo posto”, quando in realtà ci sentiamo persi, e il nostro posto nel mondo non riusciamo a trovarlo.
Yesterday I woke up suckin’ a lemon
Everything in its right place è il brano che apre la scena iniziale di Vanilla Sky, un film che non a caso ha come protagonista un uomo che inconsapevolmente sta annegando nella confusione del mondo moderno. Con il brano che suona in sottofondo e riesce a rendere tutto più inquietante, abbiamo una panoramica prima sui grattacieli di Manhattan e poi sulla vita perfetta dell’affascinante protagonista David Aames (Tom Cruise), ci viene infatti mostrato brevemente, nel momento del suo risveglio mattutino, l’ambiente interno della sua camera impeccabilmente ordinato e tecnologico, per poi passare all’esterno dell’edificio dove David si mette alla guida della sua Ferrari.
Di tutta quella perfezione si percepisce subito una contraddizione, sottolineata anche dalla scena in cui il ragazzo si ritrova isolato in una Time Square inverosimilmente deserta: David, pur essendo bello e ricco, non è felice. Infatti il giovane ereditiere (come poi si lascerà intendere) vive costantemente il terrore di invecchiare restando miseramente solo ed è anche per questo che si circonda di donne, amici, automobili e oggetti costosi.
(qui sopra la scena intro di Vanilla Sky)
Insomma si tratta di una sensazione piuttosto comune, quella di sentire il peso del tempo che passa, di provare panico nel percepire la realtà che scorre ininterrottamente intorno a noi.
Ed è a questo punto che quel “yesterday i woke up sucking a lemon” (ieri mi sono svegliato succhiando un limone) ci può sembrare incredibilmente autentico ed evocativo, visto che la reazione del palato a contatto con l’acidità del limone richiama perfettamente, in modo simbolico, l’indisposizione e il malessere che si provano al pensiero di dover iniziare una nuova giornata in una realtà soffocante, piena di ostacoli e di responsabilità che gravano sulle nostre spalle.
There are two colours in my head (What? What is that you tried to say?)
E.I.I.R.P. descrive sostanzialmente lo sfogo di una persona annoiata dalla vita e lo fa con un tono amaro, pessimistico, utilizzando parole insensate e frasi sconclusionate. Si tratta di un testo quindi irregolare e anticonformista, che trae la sua linfa dai codici artistici delle avanguardie del Novecento; si dice infatti che il brano sia stato composto attraverso un processo simile a quello descritto da uno dei maggiori fondatori del Dadaismo, Tristan Tzara, il quale, con l’intento di disintegrare le strutture del linguaggio, suggeriva di comporre le opere poetiche estraendo a caso delle frasi da un cappello.
Anche il verso “There are two colours in my head” ( ci sono due colori nella mia testa) sembra richiamare questo meccanismo, e in particolare pare sia un riferimento all’artista Mark Rothko, che fu esponente del Colorfield Painting (movimento pittorico che si sviluppa all’interno dell’Espressionismo astratto), letteralmente pittura delle campiture, in cui le tele venivano ricoperte interamente di colore escludendo ogni forma di segno.
Potremmo definire sostanzialmente quest’opera come il manifesto della solitudine in una società alienante. L’effetto straniante è ben reso anche dalla suggestiva melodia, dai singoli elementi che scandiscono le parole ripetute in modo ossessivo, cioè una combinazione di effetti sonori e suoni oscuri, che si susseguono sulle note distanti di un piano e di una batteria che proseguono ad un ritmo del tutto inusuale di 10/4 (tempo tipico della musica dance/house).
Infine, dopo la confusione totale, in uscita la canzone ti lascia in quel minuto e mezzo circa tutto strumentale, in balia delle tue riflessioni esistenziali.
Ed è lì, in quel momento, mentre hai su le tue cuffie bluetooth e cammini per strada osservando con distacco le persone e la città in movimento (in slow motion nella tua testa), che ti sembra di cogliere la più intima essenza della vita.
Laureata in Archeologia, Storia delle Arti e Scienze del Patrimonio Culturale alla Federico II di Napoli. All’età di 5 anni volevo fare la “scrittrice”, mentre adesso non so cosa di preciso mi riserverà il futuro. Ma una cosa certa è che la scrittura risulta essere ancora una delle mie attività preferite, una delle poche che mi aiuta di tanto in tanto ad evadere dal mondo.