"Il Giudizio Universale" di Michelangelo, massima manifestazione dell’arte italiana nel mondo

“Il Giudizio Universale” di Michelangelo, massima manifestazione dell’arte italiana nel mondo

Per la nostra rubrica di Arte, oggi vi parlo di uno dei più grandi capolavori dell’arte occidentale mai realizzati: il celeberrimo Giudizio Universale del Maestro Michelangelo Buonarroti.

L’affresco, che come ben tutti saprete, decora la parete situata dietro l’altare della Cappella Sistina, fu commissionato dall’allora pontefice Clemente VII e impiegò l’artista per ben sei anni, tra il 1535 e il 1541. Nella sua magnificenza, delinea una delle più grandiose rappresentazioni della parusia, il momento in cui, alla fine dei tempi, Cristo ritorna sulla Terra per aprire le porte del Regno dei Cieli.

Oltre ad essere un manifesto per la straordinaria abilità di Michelangelo, che grazie ai suoi capolavori è stato consacrato come uno dei principali esponenti del Rinascimento italiano, l’opera assume anche un significato che potremmo definire metafisico. “Il Giudizio universale”, infatti, segna nettamente lo spartiacque tra il modo di concepire la storia dell’arte e il ruolo dell’uomo durante il periodo dell’Umanesimo e del primo Rinascimento – che, ricordo, ponevano l’essere umano forte e sicuro delle proprie capacità al centro del pensiero filosofico – al successivo periodo, durante il quale le certezze caratterizzanti l’animo umano fino a poco tempo prima vengono meno, il raziocinio è dominato dal caos e un senso di angoscia invade tanto le anime dannate quanto quelle beate.

I soggetti

L’affresco, che vanta notevoli dimensioni (1370×1200 cm), può per comodità essere suddiviso in tre soggetti principali: nella parte superiore troviamo gli angeli con in mano gli strumenti della Passione di Cristo – tipicamente la croce – simbolo del suo sacrificio per la redenzione degli uomini; vi sono poi la figura del Cristo e della Vergine ritratte tra i Beati e, infine, l’arrivo della fine dei tempi, con gli angeli intenti a suonare le trombe dell’Apocalisse, l’ascesa al cielo dei giusti e la discesa negli Inferi delle anime dannate.

Tutta la composizione è ispirata alla forma ellittica (fatta eccezione per il gruppo dei santi disposto a forma piramidale posto ai piedi del Cristo), come i gruppi di angeli o la mandorla di luce che circonda il Giudice Supremo. Le figure ritratte ammontano a più di quattrocento, tutte di dimensioni notevoli: dalle più grandi che raggiungono oltre i 250 cm – le figure poste nella parte superiore dell’affresco – fino ai 155 cm di quelle poste nella parte inferiore.

Anche se arrivati al momento del Giudizio, dove i peccati di tutti vengono soppesati e si decide della loro sorte ultraterrena, nel Giudizio Universale il Buonarroti imprime comunque l’idea, tipica rinascimentale, dell’“uomo-eroe”, che riesce a essere grande anche nel peccato. Proprio a tal proposito, ha affermato il critico d’arte Giulio Carlo Argan:

“Il peccato ha rotto il sodalizio tra l’uomo ed il resto del creato; l’uomo è ormai solo nella sua impresa di riscatto; ma la causa della sua disgrazia, la superbia davanti a Dio è anche la sua grandezza.”

Descrivere minuziosamente tutti i dettagli di questa immensa opera, mi costringerebbe a proporvi, qui, un trattato di storia dell’arte… e non credo sia il caso. L’unica rappresentazione che mi sento di spiegarvi nel dettaglio, nonché fulcro dell’opera, è il Cristo giudice.

Ai tempi, era molto frequente la raffigurazione da parte degli artisti di questo soggetto, tuttavia, spesso, il Cristo è stato ritratto seduto su un trono glorioso, a simboleggiare il suo dominio sul Regno dei Cieli. Michelangelo, invece, complice anche la sua passione per l’arte classica, ritrae un Cristo imprimendogli le fattezze di un dio-eroe tipico dell’arte ellenica. Sembra quasi un rimando al Giove saettante, possente nella sua nudità fisica a simboleggiare la sua immensa gloria.

Al posto del trono di Giudice, il Buonarroti contrappone uno sfondo di nubi e un fascio di luce volto, ancora una volta, a sottolineare il carattere di “eletto” appartenente al soggetto raffigurato.

Abbastanza usuale per l’iconografia dell’epoca, invece, è la posizione delle braccia del Cristo: secondo una delle interpretazioni più in voga tra i critici d’arte, il gesto che il Figlio di Dio compie con le braccia sta ad indicare, da una parte, l’elevazione al Regno dei Cieli per le anime giuste, dall’altra, la discesa negli Inferi per le anime dannate.

Accanto a Gesù è ritratta la Vergine Maria, intenta a subire passivamente l’esito del giudizio: ella non ha alcun potere, infatti, di decidere sulla sorte delle anime in attesa; può solo rassegnarsi ad osservare mentre il figlio decreta le sue sentenze.

Le critiche e la censura

Come si sa, non sempre le grandi opere d’arte sono da subito comprese e apprezzate da tutti. Non succede oggi, immaginatevi in un’epoca in cui, per i dogmi stringenti della Chiesa, ciò che veniva rappresentato in modo non conforme alla sua idea di sacralità veniva colpito – nel migliore dei modi – da censura.

E, forse non lo immaginerete, ma anche il buon Buonarroti ha “rischiato grosso”: il Giudizio Universale, che per noi non ha fatto altro che consacrare il suo genio per l’eternità, ha rischiato di portare il suo creatore davanti al Santo Uffizio con l’accusa di eresia. Per i suoi detrattori, l’opera era infatti intrisa di oscenità, mancanza di decoro e di tradimento della verità evangelica. Fortunatamente, vi furono importanti nomi che difesero il lavoro di Michelangelo, primo fra tutti il Vasari, che così descrisse l’affresco nella prima edizione delle sue Vite (1550):

…oltra a ogni bellezza straordinaria […], sì unitamente dipinta e condotta, […] e nel vero la moltitudine delle figure, la terribilità e grandezza dell’opera è tale, che non si può descrivere, essendo piena di tutti i possibili umani affetti et avendogli tutti maravigliosamente espressi.

Nonostante la maggior parte della critica avesse accolto con entusiasmo il Giudizio Universale, nel 1564 il Concilio di Trento decise per la censura dell’opera. Fortunatamente, l’artista al quale fu affidato l’infausto onere – Daniele da Volterra – fu un grande estimatore e ammiratore del lavoro di Michelangelo, del quale fu tra l’altro allievo. Fortunatamente, il suo lavoro fu il più possibile discreto, limitandosi a coprire – tramite la tecnica della tempera a secco – solamente alcune nudità affrescate. Da qui il soprannome che gli derivò, “Braghettone”.