Un paio di estati fa, visitai fra diverse città del Nord Italia, anche Ferrara. Appena arrivato iniziai a camminare, fino ad arrivare al Castello Estense, la prima apparizione della vera Ferrara. Un castello circondato dall’acqua, con ponti levatoi, facciate in stile quattrocentesco e quel marrone che si vede in quelle città rinascimentali.
Giorgio de Chirico e la sua opera
Giorgio de Chirico nell’opera Le muse inquietanti, quel marrone lo evidenzia rappresentando sullo sfondo il Castello Estense. Si tratta di un’opera risalente al 1919: un periodo storico in cui era da poco avvenuta la grande guerra e l’Italia era confusa, nasceva il fascismo. Quel che emerge come insieme, o anche proposito dell’opera, è proprio questo distanziarsi dalla Storia. In questo mi ricorda l’Angelus Novus di Paul Klee, pur essendo totalmente diverso nello stile raffigurativo.
De Chirico era un personaggio estremamente schivo. Tutta la sua opera è un continuo distanziarsi dalle vie assurde della politica, degli avvenimenti decisivi, delle grandi battaglie, del continuo mercanteggiare, insomma del tempo che scorre. Così fondò l’Arte Metafisica e Le muse inquietanti ne è un esempio paradigmatico. Un cielo verde, il Castello Estense colorato di marrone acceso, una doppia prospettiva simmetrica e dunque irregolare, colorata di marrone. Poi ci sono i manichini. I soliti. I protagonisti. Questi ultimi venivano usati dall’artista, come spiega Maurizio Calvesi nel suo saggio La metafisica schiarita, per studiare le proporzioni. Ma diventarono i suoi soggetti preferiti. In effetti i manichini incutono da sempre un certo grado di terrore derivante proprio da quell’elemento che non è fisico nè spirituale, ma appunto metafisico. È un terrore che deriva dalla presa di coscienza dell’essere, che esso c’è. È la grande domanda metafisica fatta da Leibniz: perché l’essere e non il nulla?
Ferrara non era la città di de Chirico. Ci visse per un periodo che corrisponde a quello in cui fu realizzata Le muse inquietanti, ma lui era di origine greca, era nato a Volo nel 1888. Il suo discorso era dunque legato a una tradizione secolare. Il distanziamento dei filosofi, ben prima di quello sociale, era rivolto alla contemplazione di ciò che sta al di là degli avvenimenti umani. La meraviglia di cui parlava Aristotele era l’essere umano fermo alla domanda, nello stupore. E questi tre manichini (uno vestito di abiti antico greci) che compaiono nell’opera, si rivolgono a vicenda uno con una testa ad uso prettamente tecnico, l’altro privo, che l’ha poggiata a terra, l’altro ancora vestito e con la testa. Non si guardano, ma sembra che si parlino.
Di fronte o dietro a loro, due ciminiere. Lo sfondo della Storia, e la scena davanti, a figura intera, il presente che è la realtà metafisica. Quel che sta accadendo e che non può capire sé stesso se non eternizzandosi, porsi come universale. Lo sguardo che viene proposto ne Le muse inquietanti è quello dell’osservatore che guarda indietro la Storia, davanti a sé, e trova solo il presente che è l’angoscia derivata dalla contingenza dei manichini. Una metafisica, quella di de Chirico che tira in ballo la triade non a caso, perché la modernità di de Chirico era dialettica, e lui fuggiva nel paradosso ontologico.
Quell’angoscia che descrive de Chirico, è la ragione della metafisica. È il contemplare il terrore per conoscerlo, ma con abnegazione. Non partecipe del rumore e fracasso e immensa stupidità che avviene fuori, ma rimanendo a contatto con l’eterno, contemplando.
Il tempo è l’elemento principale nell’opera di de Chirico perché vi è sempre una descrizione di immobilità che sospende la Storia. È il caso di Arianna che compare nell’opera Piazza d’Italia del 1952. È la stessa questione che si ripete in ogni opera. Proprio perché l’estetica incontra la metafisica. Finalmente quella domanda, relativa a tutto ciò che c’è intorno a noi, all’assurdità che le cose siano e non invece il contrario, tutto questo diventa arte metafisica.
Conservazione della contemplazione. Via di salvezza. Legittimazione a dirsi sufficientemente esseri.
Luca Atzori, laureato in filosofia, ex direttore artistico del Teatro Piccolo Piccolo, Garabato e membro fondatore del Mad Pride di Torino. Drammaturgo, attore, poeta, cantautore. Autore dei libr: Un uomo dagli occhi rotti (Rizomi 2015) Gli Aberranti (Anankelab 2019), Teorema della stupidità (Esemble 2019) Vangelo degli infami (Eretica 2020) e dei dischi Chi si addormenta da solo lenzuola da solo (2017), Mama Roque de Barriera (2019) Insekten (2020) Iperrealismo magico (2020) Almagesto (2021).